Home / Esteri / Viaggio a Nasr, tra i gazawi sfollati in Egitto: «Vorremmo tornare, ma non c’è più una casa dove farlo. Possiamo fidarci di questa pace?»

Viaggio a Nasr, tra i gazawi sfollati in Egitto: «Vorremmo tornare, ma non c’è più una casa dove farlo. Possiamo fidarci di questa pace?»

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DALLA NOSTRA INVIATA
NASR (IL CAIRO) – La valigia è pronta, il pensiero ancora no. «Dio solo sa quanto io e la mia famiglia vorremmo tornare. Ma dove andiamo? Non abbiamo più una casa dove tornare. E poi io mi chiedo: dobbiamo fidarci di questa pace? Davvero la possiamo chiamare pace?».

Una risposta non ce l’ha, Said Abu al-Kass. L’unica è affidarsi al cielo, dice. Inshallah, come Dio vorrà.

Ci racconta che lasciò Gaza, il 21 marzo del 2024, come fosse un ladro scoperto a rubare. Scappare era l’unica opzione per non farsi raggiungere dalla morte che al secondo giorno di guerra si era preso suo figlio Ismail, 23 anni. Un bombardamento non diede scampo a lui e non lasciò in piedi nemmeno un metro della casa di famiglia, dalle parti di Gaza City. Così Said mise in un sacchetto tutti i suoi risparmi e, dopo aver raggiunto il sud della Striscia, trovò il modo di fuggire verso l’Egitto con sua moglie e le sue figlie: Nancy, 23 anni, Aya, 16 e Masha, 13.

Anche loro, come la gran parte dei gazawi che sono riusciti a passare il confine, adesso vivono a Nasr, sobborgo a est del governatorato del Cairo lungo la rotta del grande traffico da e verso l’aeroporto.

Il numero reale è ignoto, ma ci sono almeno tre cifre (diverse) sulla popolazione dei gazawi in Egitto. La prima è quella ufficiale della statistica e dice che nel Paese di Abdel Fattah al Sisi sono in 120 mila, compresi (si presume) i palestinesi già qui prima della guerra. La seconda è il dato delle Nazioni Unite che riguarda i soli sfollati dopo il 7 ottobre, e cioè circa 100 mila. E poi l’altra stima, quella dell’Autorità nazionale palestinese che parla di almeno 150-170 mila.
 
Il fatto è che in Egitto le Agenzie delle Nazioni Unite per i rifugiati non sono operative, quindi non è garantita la generale assistenza dell’Unhcr (per i rifugiati) né quella specifica dell’Unrwa (per i palestinesi).

La figlia di Said, Nancy, dice che «io per esempio: ho studiato farmacia, qui potrei lavorare nel settore. Ma non ho la residenza, non ho il permesso di soggiorno… Chi ti dà un lavoro se non esisti come cittadino?»

Il diritto allo studio, al lavoro, all’assistenza medica, all’istruzione, ai servizi bancari: tutto in sospeso, per i gazawi, in questi mesi egiziani vissuti quasi tutti da immigrati irregolari, perché a ciascuno è stato concesso un visto per restare nel Paese al massimo di 45 giorni, che ovviamente non sono bastati.

Nasr non è Gaza, ma nel quartiere ci sono angoli gazawi ovunque, quasi sempre davanti ai ristoranti, punti di ritrovo della comunità. Bassem Medhat, 57 anni, gestisce l’ el-Remal di Kaboul Street da settembre dell’anno scorso, quando ha lasciato la Striscia perché gli hanno bombardato uno dei due ristoranti. Mostra le macerie del locale e le fotografie dei suoi quattro figli lontani da lui e al sicuro. «Appena aprono la frontiera al passaggio dei civili io chiudo questo posto e torno a Gaza», annuncia. «Non mi importa se ci sono solo macerie e se non troverò più la casa. La mia casa è Gaza, comunque sia ridotta. Lì ho lasciato un fratello e una sorella, c’è il mio passato e c’è il mio cuore. Può un uomo vivere lontano dal suo cuore?»

Il traduttore arabo-inglese di Google semplifica i concetti di Abdullah Tariq Abu Shahla che è seduto un tavolo più in là e si avvicina a raccontare un pezzetto della sua storia. «Gli occupanti mi hanno bruciato casa e mi hanno sparato qui», si tocca una ferita al fianco destro. «Sono vivo per miracolo, ho lasciato lì mio fratello e mio padre. Non vedo l’ora di tornare. Ho la valigia pronta. Faccio come Bassem: appena aprono il confine me ne vado. Poi chissà se regge questa pace. Ma intanto io vado». Dice che deve riprendere la sua attività pre-guerra, cioè il trasporto di aiuti umanitari per conto delle Nazioni unite. Mostra se stesso in tante fotografie davanti o al volante di un tir. A 17 anni alla guida di un tir? «A Gaza si può», risponde sorridendo.

Anche Mohammed Abumarasa, 31 anni, ingegnere delle telecomunicazioni, ci racconta che è stato ferito, a Tel al-Hawa, il luogo in cui viveva a sud di Gaza City. Sul suo cellulare le fotografie lo ritraggono emaciato e sofferente al punto che non sembra lo stesso ragazzo che abbiamo davanti. «È arrivato un razzo e ha fatto una strage». Ha gli occhi lucidi mentre racconta che «stavo mangiando un pezzo di pane accanto a mio fratello che è morto. C’era altra gente attorno a noi: tutti morti, molti erano bambini. Io sono rimasto in bilico fra la vita e la morte per molti giorni». Lo hanno lasciato uscire l’11 novembre 2023 perché era un ferito grave. «Da allora vivo qui ma non so più nulla di tutta la mia famiglia. Eravamo in dieci. Ho perso ogni contatto». Chiediamo se vuole tornare a Gaza. «Ho il desiderio di rivederla, sì, ma adesso non me la sento di tornare. Perché non mi fido di questo piano di pace e perché ho paura delle risposte che troverò alle mie domande».

Altra strada, altro tavolo di un ristorante. Shahed El Hayek, 21 anni, dice che per arrivare in Egitto ha pagato 5000 dollari e che però qui è «senza scuola, cittadinanza, lavoro, diritti…». Tornare nella striscia? Solo quando sapremo dalla gente di Gaza che la pace è davvero pace. Finora è stata una parola vuota, abusata».

Al ristorante «Palestine», poco più in là, Ramzi al-Mash Havuri dice più o meno la stessa cosa: non si fida. Di nessuno, «in particolare degli israeliani». Tornare? «Certo, ma solo se davvero sarà possibile vivere liberi, non sotto il dominio di qualcuno. Non esiste la pace sotto ricatto, e i palestinesi hanno bisogno di libertà».

16 ottobre 2025

16 ottobre 2025

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