
Il 2 settembre 2005 veniva presentato in concorso al Festival di Venezia, dove poi vinse il Leone d’Oro (da noi uscì però nelle sale solo a gennaio 2006), I segreti di Brokeback Mountain/Brokeback Mountain di Ang Lee, il regista taiwanese di Il banchetto di nozze/Hsi yen (1993) e Mangiare bere uomo donna/Yǐn shí nán nǚ (1994), che dopo i blasonati esordi in patria ha sviluppato gran parte della sua carriera negli Usa, dove ha trovato la sua dimensione artistica. Il suo interesse per la cultura e la storia statunitensi emerge soprattutto nella capacità di indagare i miti e le contraddizioni dell’America attraverso generi diversi. Dalla prova generale di Ragione e sentimento/Sense and Sensibility (1995) in cui partendo dal pretesto del romanzo di Jane Austen ambientato nell’Inghilterra georgiana anticipava lo sguardo che avrebbe poi applicato alla società americana (l’indagine su vincoli sociali e desideri repressi) al dramma domestico di Tempesta di ghiaccio/The Ice Storm (1997), in cui metteva a a nudo la crisi del nucleo famigliare borghese negli anni ’70; dal sottovalutato Cavalcando col diavolo/Ride with the Devil (1999), dove la Guerra di secessione era raccontata dal punto di vista dei sudisti riflettendo su identità e appartenenza, finanche al cinecomic sui generis Hulk (2003) che affrontava (shakespearianamente) la figura del supereroe come metafora della repressione e della rabbia latente nella società americana, Lee ha sempre guardato agli Stati Uniti con una modalità al contempo “esterna” e partecipe. Esplorandone l’identità e i conflitti morali e politici, ma anche mettendo in luce il rimosso sotto la superficie dell’American Dream.
Con I segreti di Brokeback Mountain, tratto dal racconto Gente del Wyoming di Anne Proulx, Lee decostruisce un intero immaginario culturale sedimentato nell’archetipo del western: ambientato tra gli anni Sessanta e Settanta, il film mette al centro la relazione tra due giovani cowboy, Ennis Del Mar (Heath Ledger) e Jack Twist (Jake Gyllenhaal), ingaggiati per sorvegliare un gregge di pecore sulle montagne di Brokeback, Wyoming. In quell’isolamento fatto di paesaggi vasti e silenzi profondi, nasce tra loro una relazione intensa e inattesa, destinata però a restare clandestina. Una volta finita la stagione, le loro vite prendono strade diverse: Ennis sposa Alma Beers (Michelle Williams) mettendo su famiglia, mentre Jack impalma Lureen Newsome (Anne Hathaway) e si trasferisce in Texas: ma il legame che li unisce resisterà agli anni, spingendoli a incontri segreti fatti di felicità e sofferenza che il peso delle convenzioni sociali, l’omofobia e la paura di esporsi condanneranno a una dimensione privata e dolorosa. Tra sogni di fuga e frustrazioni quotidiane, la loro passione diventerà un simbolo di amore impossibile, destinato a lasciare un segno indelebile nelle loro esistenze. Lee, su sceneggiatura di Larry McMurtry e Diana Ossana, restituisce al genere un volto inedito: quello della fragilità, dell’intimità repressa e della paura di mostrarsi. E laddove il mito della Frontiera, malgrado i revisionismi degli anni Settanta, aveva comunque sempre incarnato la stereotipizzazione della virilità inflessibile, introduce l’elemento destabilizzante dell’omosessualità, che non solo scardina i codici del genere, ma li riorienta verso un’indagine dei sentimenti e delle possibilità negate.
Il film lavora costantemente sul contrasto: spazi naturali sconfinati contrapposti a interni claustrofobici, silenzi prolungati opposti a improvvise esplosioni di passione, ritualità quotidiane in conflitto con la forza primigenia dell’eros. L’amore tra Ennis e Jack non viene mai narrato come alternativa romantica a-conflittuale, ma come tensione “politica” in cui società, famiglia, religione e paura di sé concorrono a generare colpa, rimozione e progressivo allontanamento. E se la vita matrimoniale di entrambi, segnata da mogli che diventano testimoni impotenti o vittime collaterali, è la rappresentazione di un conformismo imposto più che scelto, la regia di Lee (premiata anche con l’Oscar: ma fu l’anno dello split per il miglior film che andò -non senza polemiche- a Crash di Paul Haggis) amplifica questi conflitti attraverso una messa in scena di sorprendente asciuttezza che evita il più possibile il turgore del mélo esplicito per rovesciarsi (anche grazie alle superbe prestazioni dei due interpreti) in gesti minimi, posture, sguardi, allusioni ed ellissi. La superba fotografia di Rodrigo Prieto (pure candidata all’Oscar, ma beffata da quella di Dion Beebe per il dimenticato Memorie di una Geisha/Memoirs of a Geisha dell’oleografico Rob Marshall) trasforma le montagne del Wyoming in una metafora dell’inattingibile: luoghi immensi che offrono libertà solo temporanea, spazi che sembrano garantire un rifugio ma che, al termine di ogni stagione, si dissolvono di fronte alla brutalità delle convenzioni sociali. Un perfetto set “psicologico” che incornicia una riflessione sul peso di vite che si consumano nella negazione di sé e sullo scarto incolmabile tra la grandezza poetica di ciò che avrebbe potuto essere e la prosaica miseria di ciò che verrà concesso.
La forza teorica del film risiede nell’aver posto la questione dell’identità oltre le etichette: Ennis e Jack non sono mai rappresentati come figure esemplari, ma come uomini concreti, immersi in un contesto ostile e costretti a declinare i loro sentimenti con modalità clandestine. Ed è proprio questo slittamento di programmaticità “militante” a rendere per paradosso ancor più universale la loro tragedia. L’impatto del film è stato enorme: nel cuore della cultura mainstream, ha mostrato non solo che uno “straniero” poteva gestire alla pari con i Maestri la grande visione epica americana, ma che (spezzando un tabù e ridefinendone i confini) anche un genere come il western poteva abbracciare una narrazione queer spostandone l’asse dalla conquista degli spazi fisici alla ricerca, impossibile, di un’autenticità personale e di paesaggi interiori. In questo senso, è anche un film sul Tempo. Quello della giovinezza che non torna e quello che resta come rimpianto, materializzato in un oggetto: la giacca conservata nell’armadio, reliquia silenziosa e intima.
Lontana dalla retorica (che pure le è stata stolidamente rinfacciata da qualcuno), I segreti di Brokeback Mountain è ancora a vent’anni di distanza un’opera sotterraneamente radicale, necessaria a un inevitabile passaggio “ideologico” del cinema contemporaneo e capace di coniugare racconto puro e teoria del desiderio negato senza mai perdere d’occhio l’esigenza di rivolgersi al più vasto pubblico possibile. Era -e resta- una parabola sull’incompatibilità tra individuo e mito collettivo, sulla distanza tra natura e cultura, sull’amore come forza che resiste anche quando è condannata a restare invisibile. Da riscoprire.
2 settembre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA