
DALLA NOSTRA INVIATA
RAMALLAH – La casa è quella di Qadura Fares, il politico palestinese ex ministro per i Detenuti di Abu Mazen, ma soprattutto migliore amico di Marwan Barghouti, il prigioniero che la gente di queste terre sperava e spera ancora di vedere in libertà perché «l’unico in grado di riunire e guidare la nascita di uno Stato di Palestina».
«Scusate, devo rispondere, è una videochiamata dall’Egitto», dice Fares. Dall’altra parte dello schermo appare un uomo con la kefiah sulle spalle: «Sono libero, è tutto strano ma sono libero». È Bilal Ajarmeh. Arrestato nel 2003, ha partecipato a 17 sparatorie contro israeliani e ha preso parte all’uccisione di due palestinesi sospettati di collaborazionismo. Membro di Fatah, aveva l’ergastolo. È uno dei 250 palestinesi condannati a vita che hanno visto aprirsi la porta della prigione nello scambio con gli ostaggi israeliani a Gaza.
Dove si trova?
«In un albergo al Cairo. Per ora siamo qui, ma la nostra destinazione finale cambierà, potrebbe essere il Qatar, oppure la Turchia».
Racconti queste ore.
«Domenica scorsa, alle 7 di mattina siamo arrivati alla prigione di Naqab (nel deserto del Negev, in Israele, ndr.). Lunedì, nel giorno della liberazione, ci hanno diviso in due gruppi: 1700 sono andati al Nasser Hospital di Kahn Younis, a Gaza, per fare visite mediche, ma chi come me aveva l’ergastolo è stato mandato verso l’Egitto».
Come è essere fuori dopo ventidue anni?
«È una sensazione molto complessa, ho emozioni contrastanti. Questa è la prima volta in due anni che rivedo il mio volto. La prima volta che mi lavo i denti. Tutto fuori è strano e io non so più chi sono. Riemergo dall’inferno, dove nessun diritto umano è stato rispettato».
Mostra un piatto con dei fichi, sul comodino accanto al letto, nella sua camera d’albergo. «Sognavo di mangiarli da ventidue anni. Dall’inizio della guerra in carcere non ci hanno più portato frutta. Nel 2023 pesavo 100 chili, ora ne peso 69». Chiediamo se è pentito per quello che ha fatto, per gli omicidi, la violenza del passato. È una domanda che crea tensione, annuisce e parla in arabo ma prima che venga tradotto risponde Fares: «I tempi sono cambiati. Questi uomini non sono più quei ragazzi che in un periodo storico difficile per questa terra – la seconda Intifada – si sono uniti alla lotta armata che qui ad alcuni è sembrato l’unico modo per difendere il proprio Paese dall’occupazione israeliana. Se Barghouti fosse fuori, direbbe a chi ancora crede nella lotta armata di deporre le armi». Anche Ajarmeh spera nella liberazione di colui che viene chiamato «il Mandela di Palestina».
Quale è stato il momento peggiore di questi due anni di guerra?
«In carcere, le torture fisiche e psicologiche sono aumentate. Ho perso i miei genitori, e la polizia israeliana entrava in cella e offendeva mia madre. Sapevo che non avrei dovuto rispondere per non subire ulteriori torture. Ma a volte non ce l’ho fatta e loro mi picchiavano ancora più forte».
Si alza la maglietta per mostrare i segni delle bastonate e delle frustate, ancora evidenti sul suo corpo.
Quando è successo l’ultima volta?
«Sull’autobus in Egitto, tre giorni fa. Avevamo già superato il confine, e prima di lasciarci alle autorità egiziane, i militari israeliani sono entrati per l’ultima volta e ci hanno picchiati e umiliati. Prima di lasciare la prigione, mi hanno detto: ti riprenderemo e ti uccideremo».
Vedrà la sua famiglia?
«Stanno per arrivare le mie due sorelle che vivono in America, non vedo l’ora di abbracciare qualcuno. Ho solo un sogno, di poter un giorno tornare nel mio villaggio e potere andare a trovare la tomba dei miei genitori».
15 ottobre 2025 ( modifica il 15 ottobre 2025 | 09:29)
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