
L’effettismo fa parte del gioco, all’Arena di Verona: ma nel Nabucco che ha inaugurato venerdì la nuova stagione, il lato ipergalattico della regia di Stefano Poda non è poi il lampo più memorabile.
In un mondo popolato da armigeri spaziali e lucenti, Poda eternizza le tensioni dell’opera verdiana, il conflitto e la superbia redenti dalla riconciliazione, in un messaggio per i nostri giorni dolorosi: fitto di simboli, come le due grandi strutture rotanti, fuse solo nel finale in un’unica sfera-pianeta.
Con 400 artisti in scena, fulminei nei movimenti, duelli coreutici e cromatici, ocra contro cobalto, costumi-led con corazze e aureole che abbagliano la notte, un’esplosione atomica a folgorare il tiranno.
L’effettismo però non rende più leggibili le allegorie (la cubitale citazione virgiliana in latino) e non commuove. Non quanto i flussi di danzatori come emanazioni di pensieri, le bimbe-memoria sul soave sol maggiore di Abigaille «Anch’io dischiuso un giorno»; Roberto Tagliavini, Zaccaria chiaro e paterno, che in «Tu sul labbro de’ veggenti» ridesta dell’ombra distese di caduti.
Alla timida direzione di Pinchas Steinberg, a un Nabucco migliore nella supplica che nella furia (Amartuvshin Enkhbat), rispondono la salda Abigaille di Anna Pirozzi, le sfumature di Vasilisa Berzhanskaya, Francesco Meli; e il Coro di Roberto Gabbiani, smagliante ovunque, men che in «Va’, pensiero», reso uniforme e sommessa barcarola.
14 giugno 2025
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