
Il declassamento del livello di protezione del lupo a livello europeo ha fatto un ulteriore passo avanti. I rappresentanti degli Stati membri (Coreper) hanno infatti approvato il mandato del Consiglio per la modifica dello status di tutela del lupo, allineando la legislazione dell’Unione europea
alla Convenzione di Berna già aggiornata. Il mandato include una modifica mirata della direttiva Habitat – la legge dell’Ue che attua la Convenzione di Berna – per riflettere il livello di protezione riveduto del lupo. Che passerebbe da «rigorosamente protetto» a «protetto».
Come sottolineato sin dall’avvio dell’iter di modifica, non si tratta di una semplice variazione lessicale: la cancellazione dell’avverbio comporta il passaggio del lupo dall’elenco di specie che godono della massima protezione e che sono di fatto intoccabili ad un diverso elenco, il cosiddetto allegato 3, che prevede comunque una forma di tutela, ma molto attenuata. Di fatto viene data la possibilità agli enti locali di valutare eventuali interventi di contenimento che comportino la cattura o anche l’abbattimento degli animali. Non significa che diventerà lecito per chiunque sparare a vista al lupo, come avvenuto molte volte in passato, motivo per cui la specie era finita in pesante declino. Ma solo che sarà possibile ipotizzare anche azioni drastiche, seppure normate e controllate, in presenza di esigenze di sicurezza per le persone o per gli animali da reddito.
«L’obiettivo è garantire maggiore flessibilità nella gestione delle popolazioni
di lupo nei Paesi dell’Ue – ha precisato il Consiglio Europeo – , al fine di migliorare la coesistenza e ridurre al minimo l’impatto della crescente popolazione della specie, comprese le sfide socioeconomiche. Gli Stati membri possono adottare livelli di protezione più rigorosi». Volendo, insomma, le singole nazioni potrebbero anche mantenere lo status attuale. Quella che viene modificata è infatti una direttiva, che non ha valore di legge internazionale ma solo di raccomandazione per gli Stati membri affinché armonizzino le loro legislazioni su una specifica materia.
«Sebbene i lupi non rientrino più nello status di specie rigorosamente protetta – scrive ancora il Consiglio Ue -, gli Stati membri dovrebbero comunque garantire al lupo uno stato di conservazione favorevole e applicare misure di monitoraggio che potrebbero comportare divieti di caccia temporanei o locali. Inoltre, i finanziamenti e il sostegno dell’Ue continueranno a essere disponibili per le misure di coesistenza e prevenzione e gli aiuti di Stato per indennizzare gli agricoltori colpiti potrebbero rimanere in vigore».
L’iter prevede ora che il Parlamento europeo faccia propria la posizione del Consiglio. Questo passaggio è previsto per il mese di maggio. A quel punto la direttiva si riterrà modificata. E gli Stati nazionali potranno intervenire sulle proprie leggi per eventualmente adeguarvisi. È prevedibile che molti, l’Italia in primis, lo faranno.
Da tempo ci sono pressioni per il contenimento del numero dei lupi, considerati un pericolo soprattutto per mandrie e greggi. Ma le visioni restano contrastanti. Se da un lato le forze politiche vicine alle categorie agricole cantano vittoria e già immaginano i prossimi interventi di contenimento, il fronte ambientalista fa notare come il lupo non sia un reale problema se vengono adottate forme di protezione degli animali da reddito come reti elettrificate, ricovero notturno, presenza di persone con ruoli di custodia e di cani da guardiania adatti a fronteggiare anche l’assalto del predatore. Ma questi interventi hanno un costo. E dopo che in passato il lupo è scomparso da molti territori, ha preso piede una gestione più disinvolta di greggi e mandrie all’aperto e ora non c’è molta volontà da parte degli allevatori di farsi carico di nuovi oneri. O, da parte delle istituzioni, di finanziarli.
Attualmente si stima che in Italia – la valutazione è dell’Istituto per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che fa capo al ministero dell’Ambiente – sia presente una popolazione di circa 3.300 esemplari, distribuiti soprattutto sull’arco alpino e su quello appenninico. Il ritorno del lupo è stato favorito dall’abbandono delle terre alte da parte delle popolazioni umane e dal conseguenze ritorno dei boschi in zone che un tempo erano coltivate. E dalla presenza conseguente (e in parte agevolata da reintroduzioni ai fini venatori, come per i cinghiali) di un gran numero ungulati e cervidi, prede principali del lupo.
«È un irresponsabile invito al bracconaggio, una decisione di estrema gravità – commenta l’on Michela Vittoria Brambilla, presidente dell’Intergruppo parlamentare per i diritti degli animali e esponente di Noi Moderati, che pure fa parte della maggioranza di governo -. È priva di supporto scientifico, irrispettosa delle procedure e esposta agli effetti del giudizio della Corte di giustizia europea». Brambilla è anche presidente di Leidaa, una delle associazioni che aveva presentato ricorso contro il declassamento e che aveva chiesto di congelare ogni decisione fino ad una decisione in merito da parte della Corte, attesa entro la fine del 2025. La posizione della Commissione Ue che ha attivato l’iter di modifica si basava sulla constatazione del fatto che ormai il lupo è tornato ad avere una presenza consistente sul territorio comunitario e che per questo non richieda più tutele estreme. Ma secondo Brambilla sono stati utilizzati dati non aggiornati e non sono state effettuate ricerche approfondite prima di prendere la decisione.
Anche il M5S parla di «approccio ideologico e fortemente anti-scientifico» e di decisione «che riporta indietro di un secolo la nostra cultura dell’ambiente». Anche perché, sottolineano Alessandro Caramiello e Gisella Naturale, membri rispettivamente delle commissioni Agricoltura di Camera e Senato, «il lupo ha un impatto trascurabile sul comparto, dal momento che appena lo 0,065 per cento del bestiame allevato in Europa è vittima di attacchi ogni anno. Una percentuale insignificante, soprattutto se confrontata con problematiche ben più gravi del settore, come le patologie infettive che spesso portano danni incalcolabili alle aziende». Come nel caso della peste suina africana, ricordano, che ha reso necessario l’abbattimento di quasi 120 mila animali in due anni.
16 aprile 2025
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