
Domani sarebbero dovute scattare le prime sanzioni della Casa Bianca di Donald Trump contro la Russia, mirate sul petrolio. Non accadrà, non in alcune parti nevralgiche. Ieri il prezzo del barile è addirittura crollato fino a meno 2,9% — invece di impennarsi — perché fra Washington e Mosca sta tornando l’atmosfera di complicità del vertice di agosto scorso in Alaska.
Nelle ultime ore l’amministrazione Trump ha silenziosamente spostato da venerdì 21 novembre al 13 dicembre la scadenza per la vendita di tutte le attività estere di Rosneft e Lukoil, le major del petrolio russo. Queste continuano a far gola ai gruppi americani, ma la Casa Bianca adesso preferisce allentare la pressione: sta tornando ad allungarsi l’ombra di un’intesa russo-americana, discussa sulla testa degli ucraini, senza europei, per assecondare Putin nelle sue richieste in vista di una tregua.
I contenuti trattati in questi giorni mescolano le pretese del Cremlino avanzate fin dal marzo 2022 alle rivendicazioni presentate a Trump proprio ad Anchorage in agosto. Riaffiorano le tradizionali richieste che il russo sia lingua di Stato e la chiesa ortodossa russa riceva uno status ufficiale in Ucraina. Ma soprattutto, dei negoziati di Istanbul della primavera 2022 torna l’idea di ridurre l’esercito di Kiev a dimensioni inadeguate. Secondo indiscrezioni riportate dal Financial Times, la bozza di piano discusso fra il Cremlino e la Casa Bianca prevedrebbe un dimezzamento degli effettivi ucraini; l’esercito stesso dovrebbe poi rinunciare ad alcuni tipi di armi ed è facile immaginare quali: tutti i mezzi per colpire a decine o centinaia di chilometri i depositi di munizioni, gli assembramenti di forze russe dietro il fronte o le infrastrutture critiche.
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È un ritorno, camuffato, al «memorandum» che il Cremlino presentò a Istanbul nel 2022.
All’epoca pretendeva di tagliare gli effettivi ucraini a 85 mila e limitare la gittata delle armi a pochi chilometri. Ora prova a convincere Trump a privare Kiev del diritto di usare certi mezzi e a ridimensionare un esercito che oggi conta un milione di soldati.
Il Paese aggredito a quel punto non sarebbe più in grado di difendere un confine di quasi duemila chilometri, esposto alla continua minaccia di nuove invasioni. Il sistema politico ucraino dovrebbe allora assecondare le preferenze di Mosca, perché il Paese vivrebbe sotto la minaccia delle armi russe, anche se nel piano si accenna a vaghe «garanzie di sicurezza».
Quanto all’altro cardine della bozza russo-americana, viene dritto dal vertice di Anchorage fra Trump e Putin: l’Ucraina dovrebbe cedere a Mosca tutto il Donbass, il territorio che quest’ultima non è riuscita a conquistare in quasi quattro anni di guerra e dopo oltre un milione fra morti e feriti russi. Ai ritmi ai quali avanza, l’esercito di Putin avrebbe bisogno di anni e di milioni di perdite — ormai insostenibili — per catturare la parte ancora libera del Donetsk. Con quella proposta invece Kiev cederebbe la cintura fortificata fra Druzhkivka, Kramatorsk e Slovyansk. E aprirebbe così ai russi la strada verso Dnipro e all’attacco su Kharkiv da sud. Sarebbe un passo in più nel piano russo per rendere l’Ucraina incapace di esistere, se non agli ordini di Putin.
Non è chiaro quanto conti in questa svolta americana lo scandalo Epstein e l’ansia di Trump di spostare altrove le luci della ribalta. Di certo sia da Mosca sia dalla Casa Bianca sono stati incaricati uomini di business a negoziare: Steve Witkoff per Trump, il capo del fondo sovrano Kirill Dmitriev per Putin. Zelensky, alla finestra, naturalmente respingerà; ma Trump e Putin sanno che gli scandali di corruzione a Kiev, esplosi con tempismo sospetto, lo indeboliscono. Forse russi e americani potrebbero ora tentarlo con la promessa di avere salva la vita. La società civile ucraina si rivolterebbe comunque a una pace cartaginese che schiacci il suo anelito a democrazia, indipendenza e integrazione in Europa.
Ma servirebbe che quest’ultima desse a Kiev — e a Mosca — un segnale da «whatever it takes». Potrebbe mostrare che sosterrà Kiev fino a quando serve, oltre il limite (non lontanissimo) al quale la guerra diventerà insostenibile per la Russia stessa; potrebbe farlo usando le centinaia di miliardi di euro di riserve del Cremlino e frenando il traffico di greggio russo dal Baltico. L’Europa potrebbe farlo, se accettasse che l’alternativa è peggiore: lo status di vassallo di una spartizione fra Putin e Trump.
20 novembre 2025 ( modifica il 20 novembre 2025 | 10:38)
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