Dal prof. Roberto Marchesini, filosofo e zooantropologo, fondatore e direttore della Scuola di Interazione Uomo-Animale (Siua) e del Centro Studi di Filosofia Postumanista, riceviamo e molto volentieri pubblichiamo questo intervento sul rapporto tra società odierna e animali d’affezione e sul ruolo dell’etologia.
Molto spesso le persone si meravigliano quando affermo che non è poi così intuitivo costruire una relazione corretta con il cane o con il gatto, per cui è più facile sbagliare che fare la cosa giusta. Nessuno si meraviglia quando si afferma che per guidare l’automobile occorra andare a scuola guida o che per farsi capire a Londra sia necessario studiare l’inglese. Eppure, quando si parla di costruire un buon rapporto con l’animale di casa, la maggior parte delle persone pensa che non ci sia nulla da sapere e sia sufficiente l’intuito o il buon senso.
Il più delle volte si ritiene che preoccuparsi di ricevere informazioni da un esperto sia in fondo un’esagerazione, voglia dire cioè trasformare qualcosa che dovrebbe essere naturale in un atteggiamento tecnico e artificiale. Altre volte si afferma che l’essere umano si è sempre rapportato con questi animali senza il bisogno dei consigli di un esperto: perché allora voler complicare qualcosa di semplice?
In realtà tali affermazioni non tengono conto di alcune trasformazioni socio-culturali che da una parte hanno diminuito in modo consistente le competenze delle persone in fatto di relazione con gli enti naturali – rispetto a quelle che si avevano nella cultura rurale – dall’altra hanno reso questi rapporti molto più intensi. Le persone oggi dormono con il gatto o portano con sé il cane al ristorante o su un mezzo pubblico. In pratica, abbiamo un maggior coinvolgimento di rapporto a fronte di una drastica diminuzione di competenze.
Non dobbiamo, poi, lasciarci fuorviare dalla sensazione che oggi vi sia una maggiore disponibilità di informazioni o di possibilità di accesso a queste rispetto agli anni ’80, quando il fenomeno della pet-mania ha iniziato a imporsi nel nostro Paese. Nelle società post-rurali del secondo dopoguerra c’erano ancora i nonni a fungere da cerniera intergenerazionale tra il mondo contadino e quello urbano, portando esperienze di vita vissuta con gli animali, indubbiamente non rigorose rispetto al canone scientifico ma di certo supportate da una base empirica di vissuto personale.
Al contrario, lo sviluppo della multimedialità digitale, da Google a Youtube, passando per i diversi social, i blog e le altre piattaforme, se da una parte ha favorito un più agevole passaggio delle informazioni, al punto che oggi si parla addirittura di una bulimia da notizie, dall’altra ha favorito un atteggiamento di superficialità nell’acquisizione dei dati e nella scelta delle fonti. Inutile ricordare che tra le aree che maggiormente hanno risentito di questo pressapochismo di approccio spicca il nostro rapporto con gli animali familiari. È proprio in questo ambito che il problema ha assunto livelli apicali, dando spazio a opinionisti improvvisati, leggende metropolitane, fake news, pregiudizi consolidati, mitologie immaginifiche, paradossi o semplici approssimazioni. Il perché di questa suscettibilità dell’argomento è dovuto a diverse ragioni che meritano d’essere prese in considerazione.
La banalizzazione delle alterità animali
Viviamo in un periodo storico che sicuramente ha visto un aumento di sensibilità verso le altre specie – oggi le persone inorridiscono al solo pensiero di come erano trattati gli animali nella cultura rurale – ma che nello stesso tempo ha perduto di autenticità. Si è smarrito il senso dell’alterità, azzerandone il valore peculiare e rendendolo così un argomento frivolo, per cui ciascuno si sente all’altezza e autorizzato a formulare la sua opinione in totale libertà. Se la società contemporanea ha reso i cani e i gatti membri della famiglia, per contro proprio questa assimilazione – indubbiamente sacrosanta nel suo significato di affiliazione – ha avuto come effetto collaterale un ulteriore incentivo all’antropomorfizzazione, una tendenza già presente a causa della cultura disneyana del dopoguerra.
L’umanizzazione ovviamente non è mai completa, per cui l’alterità animale viene ridotta a un’entità quasi-umana, una sorta di minus habens, che spogliato delle sue peculiarità di specie non può che risultare una buffa approssimazione all’umano. La banalizzazione si associa sempre a una ridicolizzazione dell’alterità animale, come dimostrano i vestitini, i cappellini, gli occhiali e altre amenità simili. Va affermato, senza ombra, di dubbio che antropomorfizzare non significa innalzare il non-umano, bensì togliergli le sue prerogative e quindi impoverirlo oltre a renderlo una caricatura che associa al banale l’inevitabile deriva del ridicolo, lo stigma del buffo e dell’inessenziale.

La cultura del «pet»
I cani, gatti & C. entrano nelle nostre famiglie, ma con quale titolo e soprattutto con quale ruolo? A partire dagli anni ’80 ha preso il sopravvento la cultura del pet, per cui la presenza di un’alterità animale all’interno della dimora domestica ha surclassato il concetto di animale-da-compagnia per assumere a pieno titolo la dimensione del legame affettivo, per cui oggi parliamo di animale-da-affezione. È evidente che questa terminologia non supera affatto la strumentalizzazione, per cui anche la presunta attribuzione a membro della famiglia lascia il tempo che trova, ma nessuno ci fa caso, anche perché la parola «pet» sembra ingentilire ogni cosa, nel suo sottintendere amorosi intenti e pucciniane magiche carezze. Il cane e il gatto diventano «pet», ma così facendo si trasformano in piccolini da accudire per accontentare smanie genitoriali inappagate o in partner affettivi per lenire le voragini relazionali della cosiddetta società liquida. Se l’antropomorfismo si trasforma in un’infantilizzazione, che priva il soggetto di un’identità di specie e se ogni attenzione viene svolta sotto il segno del petting, ossia della carezza, dei bacini, dell’accudimento smodato, la banalizzazione trova un ulteriore elemento di sostegno che dimostra come umanizzare non sia concedere qualcosa all’animale, uno status di prestigio o una concessione, ma sia togliere l’anima all’alterità.
La deriva pietistica della zoofilia
Si parla tanto di animalismo, spesso attribuendogli radicalismi eccessivi e posizioni prive di buon senso, ma a ben vedere la cultura antispecista non ha fatto breccia nell’opinione pubblica, se non in piccoli sparuti gruppi, tra l’altro molto elitari. La maggior parte delle persone, anche all’interno del volontariato, ha preferito rimanere all’interno della comfort zone della zoofilia con tutte le sue aberrazioni pietistiche e derive sentimentali. Se l’antispecismo mette al centro il riconoscimento delle esigenze etologiche delle alterità animali, la zoofilia, viceversa, con la sua predilezione protezionista basata sull’accudimento – la ben nota campana dorata – ha un’impostazione assai differente, limitando l’espressione di specie, soprattutto quando questa possa uscire dai parametri umani di definizione dell’accudimento e della sicurezza. Il protezionismo non riconosce alcuna autorevolezza all’etologia e il più delle volte si pone in netto contrasto con essa, come può riscontrare un educatore cinofilo quando si confronta con alcune tipologie di volontari in canile o i consulenti di relazione felina quando discutono con certe gattare. Anche i veterinari esperti in comportamento faticano oltremodo a dare indicazioni su come impostare il rapporto col cane o gatto ai loro clienti che preferiscono seguire le proprie opinioni personali. Il pietismo rimane ancora l’ostacolo più rilevante per far funzionare correttamente i canili, che da centri di adozione divengono lebbrosari per cani. Non parliamo, poi, del fenomeno delle staffette cinofile, che prendono cani cresciuti liberi e pretendono di farli adottare dalle persone. Il pietismo è un’altra forma di banalizzazione.
«Ho sempre avuto cani»
Un altro luogo comune è quello di pensare di conoscere l’etologia del cane o del gatto semplicemente perché nella propria vita ne abbiamo avuto una qualche esperienza. Ci sono molte ragioni per cui questo ragionamento è sbagliato. La prima è che non basta un’esperienza per avere una piena conoscenza di qualcosa, lo dimostra il fatto che c’è stato bisogno dell’ingegno di Copernico per individuare l’orbitazione della Terra intorno al Sole. Insomma non basta guardare il cielo per essere un astrofisico! Il perché è presto detto, molti fenomeni non sono come ci appaiono, per cui la spiegazione scientifica è spesso contro-intuitiva. Il secondo motivo riguarda la pretesa di trarre regole generali partendo da casi specifici, vale a dire il problema dell’approccio aneddotico. Parlare del comportamento del proprio cane o gatto è sicuramente utile per raccogliere informazioni non per trarre conclusioni generali. Purtroppo questo atteggiamento è molto comune. Se si valutasse il mio interesse per il mondo animale si potrebbe concludere che tutti gli italiani sono interessati al comportamento delle specie animali, ma sarebbe evidentemente una deduzione sbagliata.
Per concludere
Oggi più che mai abbiamo bisogno dell’etologia, vuoi per arrivare a costruire correttamente quella relazione intima cui aspiriamo con i nostri compagni a quattro zampe, vuoi per andare a correggere gli errori che derivano da alcuni condizionamenti culturali cui siamo sottoposti. Il segreto è sempre lo stesso: la socratica ammissione di sapere di non sapere, che in fondo è la base per ogni percorso di conoscenza. Oggi il maltrattamento più pesante e nello stesso tempo infido, sotterraneo e coperto dai nostri atteggiamenti affettivi e di accudimento, sta nel non riconoscere le caratteristiche etologiche dei nostri compagni animali. Ma prima di raggiungere la consapevolezza che ci suggerisce il filosofo ateniese, è necessario ammettere che quando si tratta di altre specie c’è qualcosa da sapere, che non si tratta cioè di un rapporto che può essere affrontato con la sola spontaneità. Difatti, si è veramente autentici quando si mescola la spontaneità con la conoscenza.
1 dicembre 2025 ( modifica il 1 dicembre 2025 | 11:38)
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