
Prima del voto, pur consapevole che Mamdani era il grande favorito, Donald Trump aveva mostrato di non preoccuparsi delle difficoltà del ceto medio di New York, strangolato dal caro prezzi: aveva ripetuto i soliti slogan («l’economia cresce, la Borsa è alle stelle, Mamdani è un comunista»). Poi, venerdì sera, poche ore prima del blocco dei buoni pasto grazie ai quali decine di milioni di poveri riescono a sfamarsi, il presidente ha offerto, nella sua residenza di Mar-a-Lago, una sontuosa festa a tema, dedicata al Grande Gatsby.
Alla luce di quanto accaduto nelle urne martedì, uno schiaffo alla miseria che è stato punito dagli elettori. Conoscendo la filosofia di Trump — mai fare un passo indietro, mai ammettere di aver sbagliato — ci si sarebbe potuti aspettare un presidente furioso, tracotante. Non è andata così: le dimensioni della batosta elettorale — Mamdani, ma anche la vittoria delle governatrici democratiche di Virginia e New Jersey, il referendum perso in California e altre sconfitte in altre votazioni locali — hanno reso il presidente pensoso, quasi laconico.
A caldo, martedì notte, un enigmatico «la battaglia è cominciata». Poi non ha rinunciato a tentare di dirottare le responsabilità: «Mi dicono che le sconfitte sono dipese dal fatto che non c’era il mio nome sulle schede elettorali e dall’impatto economico del lungo shutdown del governo che ha penalizzato i repubblicani». Anche qui solito Trump: negare ogni responsabilità confondendo le acque. È stato, infatti, lui a imporre ai suoi in Congresso di tenere duro, convinto di poter scaricare sull’opposizione democratica la responsabilità per il blocco di molte attività di governo e di vari servizi pubblici.
Trump ha anche ripetuto che Mamdani è un comunista e ha definito i democratici dei kamikaze, ma non ha nascosto la gravità della raffica di sconfitte subite dal fronte conservatore: sapeva di poter perdere a New York, ma non si aspettava un distacco così netto. Né aveva messo in conto una sconfitta in tutte le altre piazze. Ha sbagliato nei modi in cui ha sostenuto Andrew Cuomo per cercare di fermare Mamdani: affermando che «tra un cattivo democratico e un comunista preferisco un cattivo democratico» non ha certo invogliato i conservatori ad uscire di casa per andare a votare per l’ex governatore. E la sua minaccia di tagliare i trasferimenti di fondi federali alla città di New York si è rivelata un’arma spuntata. Che, almeno ieri, Trump non ha sfoderato di nuovo.
Il presidente ha, invece, affermato di aver preso atto della sconfitta, di aver imparato molto da una pessima nottata elettorale. Studierà le opportune contromisure. La prima: anziché parlare dei record di Wall Street, ieri lo slogan trumpiano è stato «il nostro obiettivo è un costo della vita sopportabile» per i cittadini. Più chiaro ancora il suo vice, JD Vance: «Dobbiamo garantire alla gente la possibilità di vivere in modo dignitoso, con costi accettabili: è su questo che verremo giudicati nel 2026 e oltre».
Trump continua a dire che l’economia scoppia di salute e che i prezzi sono sotto controllo, ma sa che rischia di cadere nella stessa trappola nella quale è finita la presidenza Biden, impopolare soprattutto per il forte aumento del costo della vita. Il leader conservatore aveva demonizzato l’economia del vecchio Joe e promesso una nuova «età dell’oro». A un anno dalla sua elezione la gente non solo non ha visto l’oro, ma è sempre più in difficoltà perché i prezzi — soprattutto la casa e la spesa — crescono più dei salari. E l’inflazione, anche se non elevatissima (tra il 2,6 e il 3%, a seconda di come la si calcola) non è inferiore a quella dell’ultimo anno di Biden.
Certamente Trump continuerà a battere sul Mamdani comunista cercando di alimentare le divisioni in campo democratico. Ma deve prendere atto che un partito fino a ieri non solo diviso ma anche sfiduciato, privo di leadership, esce dal voto di martedì rinfrancato, con un leader capace di mobilitare in massa i giovani e un Barack Obama rinfrancato, deciso a tenere testa all’autoritarismo di Trump mentre cerca di spingere Mamdani verso scelte che, senza tradire le promesse fatte ai suoi elettori, non siano, comunque, in conflitto coi principi del partito democratico.
Anziché di quelle della sinistra, Trump rischia di doversi occupare, ora, soprattutto delle divisioni tra repubblicani: quelle dei Maga, con la maggioranza filoisraeliana sempre più in polemica con un gruppo minoritario ma con pretese di purezza ideologica che flirta con l’antisemitismo e può contare sul potente megafono di Tucker Carlson. Trump deve poi ritrovare al più presto la sintonia coi repubblicani che, in Congresso, subiscono malvolentieri la sua contrarietà a concessioni per porre fine allo shutdown e si oppongono alla sua richiesta di abolire lo strumento del filibustering.
5 novembre 2025
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