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Trump, battute e superlativi al vertice Nato: «Fordow? Come Hiroshima». Così Donald si propone come «presidente essenziale»

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DAL NOSTRO INVIATO
L’AIA – La grande sala della conferenza stampa attende in silenzio, per oltre un’ora, l’arrivo di Donald Trump. Sul palco un unico podio: il presidente fa tutto da solo, dà e toglie la parola; conosce i giornalisti, soprattutto quelli delle «fake news», Cnn, Msnbc, New York Times. Alle 16 «The Donald» sbuca dalle quinte, solito completo blu, solita cravatta rossa. Avanza leggermente incurvato e sembra fendere lo spessore di quell’atmosfera. Primo giro di domande e presto la platea dei giornalisti diventa una bolgia. C’è chi balza in piedi urlando, chi sbraita protendendo il microfono, chi agita le braccia per attirare l’attenzione.

In questo secondo mandato Trump sembra decisamente più in controllo. Non perde mai la calma. La sua innata propensione all’insulto e anche alla maleducazione si cristallizza in battute secche, strappando un sorriso anche quando maltratta gli spagnoli, gli unici a opporsi al balzo delle spese militari, o sbeffeggia le giornaliste-star delle emittenti americane.
Il dialogo, la dinamica con i reporter riflette al meglio il momento di Trump, la sua giornata da protagonista nel vertice Nato, qui all’Aia. Dopo sei mesi di sostanziali fallimenti sul piano internazionale, il presidente americano pensa di potersi finalmente presentarsi da vincitore. Insiste fino allo sfinimento sul bombardamento delle centrifughe nucleari nascoste nella montagna di Fordow, in Iran. Elogia i piloti, «degli eroi», e scortica il New York Times e la Cnn, «spazzatura» che mette in dubbio il risultato dell’operazione. Gli impianti sono stati distrutti e Trump chiama in soccorso il rapporto dei servizi segreti israeliani, anche se quelli americani non si sono ancora pronunciati con sicurezza.

Trump maneggia i dettagli tecnici con apparente dimestichezza. Ma quello che conta è l’obiettivo politico: la fine della «guerra dei dodici giorni» tra gli ayatollah e Israele. Arriva persino a paragonare le bombe sui reattori iraniani alle atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Come dire: sono come o meglio di Henry Truman, perché anch’io ho usato la forza per chiudere una guerra. Alla fine degli anni Novanta, l’allora Segretaria di Stato, Madeleine Albright definì gli Stati Uniti «la Nazione essenziale». Ecco, ora, 25 anni dopo, qui nel cuore della Vecchia Europa, stiamo ascoltando un uomo che si presenta «come il presidente essenziale». Tutto ciò che accade di buono o di positivo è merito suo: la tregua tra India e Pakistan o la stabilizzazione del Kosovo. Tutto è «mai visto prima», o «monumentale», come «la vittoria degli Stati Uniti», cioè la sua, che ha costretto i Paesi europei, quei «parassiti», a sborsare più soldi per la difesa.

Ma se c’è ancora qualcosa che palesemente non va, beh, allora la responsabilità va cercata altrove. L’esempio più vistoso: il conflitto in Ucraina. Perché Trump non è ancora riuscito a trovare una soluzione? «Perché è più difficile di quanto si potesse immaginare, ci sono stati problemi con Putin e con Zelensky». Trump prova a spiegarlo anche a una giornalista ucraina che, con la voce agitata, riesce a conquistare il microfono per una domanda. Una delle più concrete, in realtà: «Presidente, oggi lei ha visto Zelensky. Ci manderete i missili, ci manderete le armi necessarie per battere i russi»?. Trump chiede: «Lei vive in Ucraina?». «No, ora sono a Varsavia, ma mio marito è rimasto lì, è un soldato al fronte». «Faremo il possibile, l’ho detto anche a Zelensky, so che avete bisogno dei missili Patriot, ma in questo momento ce ne sono pochi a disposizione; ne abbiamo inviati molti in Israele. So che è dura, può essere scoraggiante. Mi ha fatto una buona domanda e le auguro molta fortuna».

La Russia, Putin mettono in rilievo i limiti dell’approccio trumpiano. Il presidente Usa celebra «il ritorno della deterrenza americana», un concetto che ci riporta indietro di almeno quarant’anni, all’epoca della Guerra fredda. Può funzionare, forse, con gli ayatollah. «Vedremo gli iraniani la settimana prossima», dice Trump aggiungendo magnanimo: «vedremo se negozieremo un accordo, intanto possono vendere il petrolio che vogliono a chi vogliono, a cominciare dalla Cina». Ma dalla Russia non arriva alcun segnale. Putin è la variabile che mette a rischio il mito del «presidente essenziale», a cui «The Donald» sta lavorando alacremente.

26 giugno 2025

26 giugno 2025

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