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Susanna Tamaro: «Il nostro sistema politico? Siamo impantanati nell’inefficienza: le istituzioni vanno riformate (e dirlo non è di destra né di sinistra)»

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Stanotte ho fatto un sogno: un magnifico carro decorato con colori vivaci, tirato da due possenti buoi e spronato dalle incitazioni e dagli schiocchi di frusta del conduttore, procedeva con allegria in una lunga strada assolata. Più andava avanti, però, più il suo percorso si faceva difficile e faticoso a causa di continue buche di fango che inghiottivano le ruote, rendendo impossibile arrivare alla meta. Questo splendido carro bloccato dal fango, ho pensato allora, non è forse la metafora dell’Italia? In questi ultimi mesi ho cercato di mettere a fuoco le ragioni per cui un Paese pieno di risorse e di energie imprenditoriali sia prigioniero di un’annichilente paralisi che rende impossibile ogni spinta positiva al cambiamento. In questa mia ricerca, mi sono imbattuta nel libro di Nicola Drago, Il premierato non è di destra
, con la prefazione di Sabino Cassese (Utet, 2024). Nicola Drago non è un politico, né aspira ad esserlo. È l’erede di una storica casa editrice che nel 2016, quando ne ha preso in mano le redini, perdeva centomila euro al giorno e che dopo cinque anni di duro lavoro, di strategie vincenti e di scelte mirate è riuscito a risanare. Una persona pragmatica dunque, che, dopo aver rimesso in piedi l’azienda, si è domandato: ma perché non è possibile farlo anche con l’Italia? «Il nostro sistema parlamentare è ormai un unicum al mondo» scrive Drago. «Un parlamento diviso in due cervelli quasi identici ma indipendenti. (…) Soltanto la Romania e la Cecoslovacchia hanno avuto un assetto simile ma l’hanno abbandonato entrambi tra gli anni Novanta e il Duemila».

Perché, si chiede ancora Drago, tutti i Paesi che si erano affidati a un sistema bicamerale nel dopoguerra, per tutelarsi da un eventuale ritorno di una dittatura, nel corso del tempo l’hanno eliminato? Perché questo sistema produce instabilità. «Negli ultimi due lustri, mentre noi cambiavamo sette governi, Stati Uniti, Canada, Francia, Giappone e Germania hanno avuto due o al massimo tre responsabili dell’esecutivo. Il primato negativo l’Italia se lo contende con alcuni Stati africani, come Burkina Faso (sette governi) Tunisia (otto) e Algeria (nove)».

L’instabilità è nemica di ogni crescita. Ha bisogno di stabilità e di non venir dilavato dalle piogge, il chicco di grano per mettere radici e regalarci la sua spiga. Hanno bisogno di stabilità i bambini per crescere come persone responsabili ed equilibrate. L’instabilità rende tutto precario e questa precarietà si ripercuote in modo drammatico sul tessuto produttivo e sulla vita dei cittadini. Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto ben dieci riforme della giustizia nei suoi vari rami. Per comprendere quale impatto abbia questo sulla vita dei cittadini, basta ricordare che la durata media dei processi penali in appello è dieci volte la media europea. 1.167 giorni contro 121. E siamo al primo posto per condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’irragionevole durata dei processi: 1.230 condanne, più del doppio della Turchia, al secondo posto con 609.

La paralisi dei processi e la supremazia del cavillo sulla vera giustizia — ricordiamo l’orrore citato da Roberto Saviano sui 200 mila euro restituiti ai responsabili dello scempio della Terra dei Fuochi — dona ai cittadini un senso di totale impotenza, senso che sta alla base del sempre più preoccupante abbandono delle urne.

Mi torna in mente un famoso esperimento compiuto su due gruppi di ratti tenuti in gabbie diverse. A tutti venivano somministrate delle scosse elettriche a sorpresa, con la differenza che i topi di una gabbia avevano a disposizione una leva che permetteva loro di interrompere la corrente, mentre quelli dell’altra no. I roditori che ne erano privi, distrutti dall’ansia di non poter evitare la scossa, morivano in breve tempo divorati dallo stress. La stessa ansia generata dall’impotenza che attanaglia ormai tutte le energie produttive e sociali del nostro Paese, monitorate da un sistema di controllo che non è improprio definire poliziesco. Il proliferare di migliaia di leggi, con il loro infinito diramarsi di sempre nuovi misteriosi e astrusi codicilli, ci mette nella stessa condizione dei ratti che alla fine scelgono come via di sopravvivenza la passività distruttiva. La burocrazia si comporta nei nostri confronti come la cuscuta, un’erba parassita priva di radici, conosciuta come pianta vampiro, capace di perforare la specie ospite, succhiandone la linfa e avvolgendola in inestricabili grovigli.

Proprio ieri un amico mi ha detto di aver ricevuto due solleciti di pagamento di 700 e 600 euro per due multe del 2015, pena il blocco amministrativo immediato della macchina. A che multe si riferisse non era più possibile saperlo. Come fa una persona come lui, che ha uno stipendio da operaio, dunque al limite della sopravvivenza, a trovare in due giorni 1.300 euro? Ma non ha scelta, lo deve fare a tutti costi per poter utilizzare la macchina per andare a lavorare. Questa irragionevole follia espone le persone oneste a un gorgo da cui difficilmente si esce, quello dell’usura. La fragilità sociale si sta allargando come una macchia d’olio, divorando la classe media che un tempo viveva dignitosamente e che ora viene abbattuta dalle bollette fuori controllo, dai prezzi delle assicurazioni, dai mutui e da un sistema fiscale che penalizza soltanto chi paga le tasse.

Il nostro Paese ha un sistema farraginoso di controllo preventivo che rende impossibile intraprendere una qualsiasi impresa. In Spagna per aprire un’attività ci vogliono cinque giorni, negli altri Paesi europei una settimana. In Danimarca, nessun contratto deve essere più lungo di una pagina. Semplicità vuol dire chiarezza, e chiarezza vuol dire equità. Tutto si può dire in modo semplice e soprattutto con poche parole comprensibili. Quando questa chiarezza non c’è prospera l’invisibile cuscuta della corruzione e dell’illegalità. All’inizio pensavo nella mia ingenuità politica che l’Unione Europea sarebbe stata un bene perché ci avrebbe imposto un processo di semplificazione capace di portarci al livello degli altri Paesi. E invece è successo esattamente il contrario e ha caricato un fardello di leggi delega, decreti legislativi, regolamenti e direttive che ci hanno dato il colpo di grazia finale. Basti pensare che per comprare dei normali fitofarmaci per l’orto e il frutteto di casa bisogna aver fatto un corso a pagamento per ottenere un patentino che però dopo cinque anni scade e bisogna rinnovarlo, rifacendo il corso già fatto e pagando per un nuovo patentino. E questo ennesimo esasperante fardello non colpisce le grandi aziende che sono comunque tutelate dagli agronomi professionisti ma il pensionato che coltiva il suo orto e qualche albero da frutta.

Tutti i governi, in campagna elettorale, promettono di far piazza pulita dell’Idra dalle mille teste della burocrazia e di rendere chiare e comprensibili le leggi, ma poi tutti dietro di sé lasciano migliaia di nuove leggi a memoria della loro legislatura. Una società vessata da troppe tasse e balzelli costringe ogni contribuente a ricorrere, anche per la più modesta delle attività, a un commercialista, esoso aruspice dei nostri tempi. Pensiamo al proliferare di serrande abbassate e di imprese giovanili fallite per troppe spese e obblighi fiscali che divorano ogni possibile margine di guadagno, e di ragazzi in fuga verso Paesi in cui la loro professionalità viene pagata, apprezzata e riconosciuta come valore.

Chi trae giovamento da una situazione di paralisi che è non è molto diversa dal vicolo cieco in cui alcune specie si sono messe nel corso dell’evoluzione? Secondo Drago, ne beneficiano soprattutto le invisibili e potentissime caste e corporazioni del Paese. Caste e corporazioni che nel corso delle varie legislature hanno ricevuto importanti privilegi a cui non desiderano in alcun modo rinunciare e «che si battono per il no a qualsiasi modifica del sistema costituzionale.(…) Questo fronte alla resistenza al cambiamento è assai ampio e nel tempo si è dimostrato in grado di attivare un vero e proprio piano di emergenza in difesa dello status quo, tra i pochi piani strategici italiani che hanno dimostrato di funzionare egregiamente».

Di fronte a una società in crisi così grave e così radicata nel tempo sconcerta che il dibattito politico sia relegato a canzonature derisorie, a insulti personali e a infantilismi di ogni tipo che non possono che imbarazzare e preoccupare la parte adulta del Paese. Così come imbarazza il continuo sventolare dei fantocci del Novecento, lo spauracchio di antiche dittature pronte a rinascere dalle proprie ceneri ai minimi tentativi di cambiamenti costituzionali. Come se la storia non esistesse, come se fossimo destinati a un’eterna coazione a ripetere. Le dittature, è vero, sono sempre in agguato ma le forme in cui si manifestano non sono mai uguali, evolvono con il modificarsi della tecnica, dei costumi e della società. La vera dittatura che subiamo adesso è quella, mite e sorridente, degli algoritmi.

In verità, questo desiderio di cambiare la struttura parlamentare nel tentativo di porre fine allo stallo obbligatorio ha una lunga storia nel pensiero politico degli ultimi decenni. A partire dalla testimonianza di Veltroni che, nel suo libro del 2013 E se noi domani. L’Italia e la sinistra che vorrei
(Rizzoli), ricordava che l’apertura al semipresidenzialismo era scritta e sottoscritta nella tesi dell’Ulivo del 1996, per arrivare a Massimo D’Alema che nel 2003 proponeva l’introduzione del premierato per superare i limiti del parlamentarismo e la sua conseguente instabilità, fino al referendum confermativo Renzi/Boschi del 2016 che mirava a modificare la struttura del Parlamento. Tutte bloccate perché, tra i pericolosi vizi della politica nazionale, quello più inossidabile è l’ossessiva delegittimazione della parte avversa, a prescindere dalla realtà e dai reali interessi del Paese.

Dopo aver letto il libro di Nicola Drago, grata per la sua chiarezza, ho realizzato che le sacrosante richieste di un cambiamento costituzionale non appartengono né ai partiti di destra né a quelli di sinistra, ma piuttosto al partito del buonsenso, quel buonsenso che abita da sempre nella società civile e operosa che manda avanti l’Italia e che non è mai riuscita ad avere una vera voce in capitolo. Se riuscisse ad averla, sarebbe come lo schiocco di frusta capace di far uscire finalmente dal fango lo splendido Paese in cui abbiamo il dono di abitare.

15 agosto 2025 (modifica il 15 agosto 2025 | 09:57)

15 agosto 2025 (modifica il 15 agosto 2025 | 09:57)

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