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Storie dai luoghi della pomice: la memoria tradita di Lipari

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«C’è qualcosa d’immorale nel non voler soffrire per la perdita della bellezza, per la patria rotolante verso chi sa quale sordido inferno di dissoluzione, non più capace di essere lume nel mondo», scrisse Guido Ceronetti nel suo Un viaggio in Italia. Ed è davvero sordido l’inferno verso cui rotolano nel più omertoso silenzio le rovine e i rottami di quello straordinario patrimonio di archeologia industriale che furono per Lipari lo scavo, il recupero e la lavorazione prima dell’ossidiana nera e lucente e poi della pomice bianca, dura e leggera (usata duemila anni fa perfino per il tetto del Pantheon) che fin dall’antichità furono la ricchezza delle Eolie.

Il mare, certo, è sempre blu e bellissimo. Come ai tempi in cui passò da queste parti Ulisse: «Giungemmo nell’Eolia, ove il diletto/ agl’immortali Dei d’Ippota figlio,/ Eolo, abitava in isola natante…». Quelle pietre così leggere da galleggiare e apparire quasi natanti sull’onda come si legge nel racconto omerico, però, non ci sono più. Così come, chiusi gli stabilimenti, non ci son più i minatori (eccetto l’anziano denunciato mesi fa perché «coltivava» una cava abusiva) da anni pensionati perché colpiti dalla silicosi o assunti in Comune e altri uffici pubblici. E i ruderi, in particolare ad Acquacalda e Porticello, sono abbandonati da decenni al degrado. E occupati qua e là da bagnanti che, chissenefrega dei divieti di balneazione e delle ordinanze che vietano l’accesso al mare su 47 chilometri di costa dell’arcipelago, stendono l’asciugamano sui moli erosi dal tempo e abbandonati. Coi ragazzini più temerari che in quest’estate rovente si arrampicano pericolosamente per un tuffo sui rottami arrugginiti del disastrato pontile ridotto a un cadavere ferroso semidistrutto dall’ultima mareggiata.

Spezza il cuore, il film documentario
La cava bianca di Marco Mensa ed Elisa Mereghetti, con Davide S. Sapienza, che sarà presentato in prima assoluta domani sera ai Giardini del Centro Studi Eoliano a Lipari. Perché, tra le struggenti immagini in bianco e nero di tanti liparoti che col piccone in pugno si arrampicavano anni fa sui fianchi della montagna d’un biancore accecante sotto il sole furibondo di cui scriveva Gesualdo Bufalino, i racconti e gli aneddoti degli storici intorno alla cultura di quelle pietre vulcaniche, le testimonianze di minatori che patirono quella vita o di chi perse padri, fratelli o amici rovinosamente precipitati a valle in una nuvolaglia di polvere e di morte, la grande epopea della pomice ricorda a tutti gli uomini di cuore e cultura che quella memoria non merita d’essere buttata via. Perché dietro ogni singolo solco rigato a prezzo della vita nella montagna bianca, per parafrasare una bellissima frase di Indro Montanelli, c’è la biografia di un nonno e di un bisnonno. Che vogliono rispetto.

Quello che è mancato da parte della Regione Sicilia. La quale, dopo avere dato mostra con Nello Musumeci di interessarsi alla tutela di quel passato accogliendo l’idea di recuperare gli edifici abbandonati e costituire un Museo e Parco geo-minerario unici al mondo centrati sulla cultura dell’ossidiana, della pomice e dei vulcani, con investimenti iniziali di 4,5 milioni di euro e l’impegno a investirne altri 29 per cambiar faccia a un turismo oggi solo (o quasi) balneare, fece col nuovo governatore Renato Schifani un clamoroso voltafaccia. Annullando il progetto-museo, contestato dal Tar che non riconosceva le ragioni del vincolo di tutela, e riconsegnando di fatto tutti gli impianti, gli edifici, i terreni, a un curatore fallimentare del tutto disinteressato a ogni progetto culturale nel nome del solito motto degli affaristi: pochi, maledetti e subito.

Fu così, come i lettori ricorderanno, che quel patrimonio di archeologia industriale pari a 53 ettari scoperti e 21 mila metri quadri coperti in uno degli specchi di mare più incantevoli del pianeta (chiedete a Brad Pitt che sta giusto navigando in zona, scrive notiziarioeolie.it) sembrò finire per poco più di 3 milioni (un dodicesimo dei 35.865.803 euro della perizia degli stessi liquidatori) a un imprenditore siculo-elvetico e a una società con 10 mila euro di capitale, zero dipendenti, sede legale dal commercialista davanti al molo aliscafi di Lipari, a sua volta legata a un’altra società di Breganzona che si occupa un po’ di tutto, tranne che di cose che abbiano a che fare con le Eolie o i musei. «Chi c’è dietro?», chiesero gli ambientalisti temendo speculazioni immobiliari. «È un accordo tra privati. Risponderò quando sarà il momento». Unica concessione ai curiosi: «Alle Eolie manca un hotel a 5 stelle…».

Da quel momento, clic. Fine delle notizie. Incertezza totale. «Un plumbeo silenzio di tomba», accusa Pietro Lo Cascio di Legambiente. Per mesi e mesi. Col patrimonio immobiliare sempre più sprofondato nel degrado. Finché ha cominciato a girare una voce. Quella che alcuni creditori importanti dei vecchi stabilimenti chiusi, non troppo convinti (eufemismo) dell’accordo tra il liquidatore e i misteriosi compratori rappresentati dal siculo-elvetico, si siano messi di traverso. Bloccando la vendita. Tanto più che, come spiegò il suo autore di allora Aurelio Angelini, il Piano di gestione Unesco delle Eolie firmato da Stato e Regione prevedeva espressamente l’istituzione di un Parco nazionale e gli investimenti su ambiente e cultura. Un dettaglio non secondario, che avrebbe sollevato intorno al nuovo businness una crescente curiosità della magistratura.

La prima

«La cava bianca», docufilm di Marco Mensa ed Elisa Mereghetti con Davide S. Sapienza, sarà presentato in anteprima assoluta a Lipari (Messina) lunedì 28 luglio (ore 21, Giardini del Centro Studi eoliano, via Maurolico 15) nell’ambito della rassegna Un mare di cinema (che prosegue fino al 2 agosto). Il film è prodotto da Ethnos con il patrocinio del Comune di Lipari.

26 luglio 2025 (modifica il 26 luglio 2025 | 23:27)

26 luglio 2025 (modifica il 26 luglio 2025 | 23:27)

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