
Sean Mayberry è fondatore e Chief Executive Officer di StrongMinds, organizzazione non-profit ispirata al principio che la salute mentale sia un diritto umano, alla base di comunità sane e prospere. La rivista Time lo ha segnalato fra le 100 persone più influenti al mondo nell’ambito di medicina e salute. StrongMinds sta combattendo la depressione in Africa, dove è misconosciuta e non curata. Dal 2013, più di un milione di persone è stato trattato con psicoterapie interpersonali di gruppo, condotte da membri delle comunità, adeguatamente formati. Durante le sessioni, i partecipanti imparano a identificare gli eventi che innescano la depressione e a contrastarli. Nel 2024 il costo per singolo paziente è stato di solo 23 dollari. Sei mesi dopo il trattamento, l’80 per cento dei pazienti era libero dalla depressione e molti si sono impegnati nell’aiuto psicologico alla comunità. «Stiamo rendendo democratico il trattamento della depressione» dice Mayberry. «Se non lo facciamo noi, nessun altro lo farà».
In quali Paesi StrongMinds ha già implementato il suo modello di psicoterapia interpersonale di gruppo?
«Il nostro modello, definito Interpersonal Group Therapy (IPT-G), è facilitato da membri della comunità ed è stato implementato da nostri operatori, in collaborazione con i ministri dei governi locali e con le Organizzazioni non Governative di Uganda, Zambia, Kenia, Malawi e Nigeria, e poi anche negli Stati Uniti».
Con quale metodologia avete misurato l’efficacia dell’intervento?Realizzerete trial clinici per verificare l’efficacia dei trattamenti?
«Per ogni singolo paziente usiamo il PHQ-9 (Patient Health Questionnaire-9) uno strumento per screening, diagnosi, monitoraggio e valutazione della gravità della depressione, che utilizziamo prima dell’intervento e poi a intervalli successivi. Raccogliamo anche dati su indicatori secondari, che ci dicono come il trattamento impatta sulle vite delle persone. Curiamo la depressione per contrastare la sofferenza degli individui, non per migliorare le condizioni economiche, ma osservando questi indicatori possiamo dire che ci sono implicazioni positive nel momento in cui la depressione viene eliminata. Ad esempio, quando le persone sono trattate per la depressione diventano economicamente più produttive, hanno migliori connessioni sociali, i loro bambini vanno a scuola e si alimentano più regolarmente. In ogni caso stiamo anche pianificando trial clinici randomizzati e controllati (RCT), così da avere ulteriori dati sull’efficacia del nostro modello. Questi trial costeranno all’organizzazione circa un milione di dollari e comporteranno molta preparazione e pianificazione. In passato abbiamo realizzato piccoli RCT, compreso uno realizzato nel 2018, e uno fatto in collaborazione con la New York University, che mostra come il nostro nuovo modello, che ha portato la durata del trattamento da 8 a 6 settimane, sia altrettanto efficace».
Ritiene che il modello possa essere utilizzato in altri tipi di società, collaborando con i servizi sanitari e di salute mentale esistenti?
«Sì, le prove indicano che il modello, o un altro simile, può essere adattato a differenti società e integrato nei servizi già presenti. Myrna Weissman, docente di Epidemiologia e Psichiatria alla Columbia University , che ha collaborato allo sviluppo della terapia interpersonale, ha effettuato molte ricerche in tal senso, rilevando che alcune variazioni del modello sono state usate nel Regno Unito».
Il modello può essere utilizzato per i migranti?
«Con qualche adattamento a seconda della provenienza e dopo piccoli test pilota per valutare l’efficacia. Ma la terapia interpersonale di gruppo è ormai testata con centinaia di modelli in tutto il mondo e ci sono ottimi motivi per ritenere che possa funzionare. I principi della terapia affrontano il dolore psichico, i cambiamenti di vita, le controversie interpersonali e l’isolamento sociale, tutti significativi per le esperienze dei migranti, quali il trasferimento in un altro Paese, la perdita delle reti sociali, la necessità di adattamento culturale».
Quali sono gli adattamenti da fare in ogni cultura?
«Bisogna fare sperimentazioni nei diversi setting per trovare la giusta misura. In diversi tipi di società possono esserci diversi gradi di individualismo, così che potrebbe manifestarsi una maggiore riluttanza a condividere sentimenti e storie personali in gruppo, come abbiamo già verificato negli Usa, dove abbiamo dovuto interrompere gli interventi. Ci eravamo approcciati pensando che ciò che aveva funzionato in Uganda avrebbe funzionato anche negli Usa, ma le cose non sono andate così. Avevamo iniziato con un budget troppo limitato e uno staff eccessivamente ridotto. È stato necessario ripartire con un piccolo studio pilota per testare l’adattabilità del modello, così da poter effettuare tentativi sempre un po’ diversi. L’esperienza di StrongMinds America è stato per noi un difficile risveglio che ha mostrato come questo metodo non sia uno standard buono per tutte le occasioni. Ogni setting comporta specifiche sfide, ora lo sappiamo. Ad esempio, quando abbiamo iniziato a lavorare in Uganda, abbiamo rilevato differenti modalità di comprensione della depressione e abbiamo dovuto pensare come spiegarle, considerando barriere di lingua e alfabetizzazione. Abbiamo provato con alcune carte figurate. Una, per esempio, simbolizzava la depressione con la figura di una persona carica di bastoni sulla schiena. È il tipo di sperimentazione necessario quando si sposta il modello da un setting all’altro. Comunque, da adesso, potremmo offrire il nostro modello a qualsiasi Paese interessato. Al mondo ci sono 300 milioni di persone che soffrono di depressione, ed è una marea crescente per la quale nessuno sta pensando di fare qualcosa. Noi sentiamo la responsabilità morale di dover condividere quanto stiamo realizzando».
21 giugno 2025
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