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Scattano i dazi americani: prelievo al 15% sui beni Ue. Molti i dossier ancora aperti

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Il D-Day dei dazi è arrivato. Dalla mezzanotte entrano in vigore le nuove tariffe americane, che colpiranno con aliquote differenziate — tra il 10% e il 50% — i beni importati da 92 Paesi, inclusa l’Unione europea, a cui tocca un prelievo del 15% su gran parte dei suoi prodotti. Tutto è iniziato il 2 aprile, data ribattezzata «Liberation Day», la liberazione dell’economia americana da quello che Donald Trump considera un sistema di commercio globale «ingiusto». Quel giorno, il presidente ha svelato — con una lavagna nera in stile show televisivo, su cui erano segnati dazi Paese per Paese — la sua nuova visione del mondo. Da allora, la lavagna ha cambiato volto più volte: in quattro mesi di minacce, sospensioni, rinvii e clamorosi dietrofront, la politica tariffaria americana si è trasformata in uno strumento di pressione flessibile, nelle mani di una Casa Bianca decisa a rimettere in discussione le regole del commercio globale.

Lo schiaffo all’India

L’ultimo colpo di scena ieri, quando Trump ha fatto seguito alla minaccia di martedì e ha raddoppiato il dazio sulle importazioni indiane, dal 25% al 50%, in risposta all’acquisto di petrolio russo. L’India, che dipende per il 38% del suo petrolio dalla Russia, ha denunciato la misura come «ingiusta e irragionevole», annunciando azioni legali a tutela della propria sicurezza energetica.

È la stessa aliquota che grava sul Brasile, inizialmente prevista al 10% e poi arbitrariamente aumentata fino al 50%, per sostenere la causa dell’ex presidente e amico Jair Bolsonaro, condannato agli arresti domiciliari. Il governo di Brasilia, definendo la mossa «autoritaria e irrispettosa», ha annunciato un ricorso all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Il presidente Lula ha reagito duramente. «Esigo rispetto, non è così che si negozia tra capi di Stato», ha detto, anticipando che contatterà i leader di India e Cina per coordinare una risposta comune del gruppo Brics a Washington.

Tra i Paesi colpiti maggiormente figura anche la Svizzera, colpevole — secondo la retorica trumpiana — di essere troppo piccola (appena 9 milioni di abitanti) per avere un surplus così grande (41 miliardi) con gli Stati Uniti. Così il viaggio in extremis della presidente elvetica Karin Keller-Sutter, che portava una nuova «offerta allettante» di accordo, non ha ottenuto i risultati sperati. L’incontro con il segretario di Stato Marco Rubio per evitare il dazio del 39% su orologi, farmaci e cioccolato è stato definito «molto buono», ma senza compromessi formali. Perfino il Canada, che insieme al Messico è principale partner commerciale degli Stati Uniti, deve fare i conti con una tassa doganale del 35%.

Ma nulla è definitivo. Lo dimostra l’annuncio, arrivato ieri sera dalla Casa Bianca, dell’intenzione di introdurre dazi fino al 100% su chip e semiconduttori, senza però indicare una data precisa per l’entrata in vigore. «Imporremo dazi significativi su chip e semiconduttori — intorno al 100%», ha dichiarato il presidente. «Ma è una buona notizia per le aziende che li producono in America».

La fatica europea

In questo scenario, il dazio del 15% che sarà applicato alle importazioni europee — frutto del cosiddetto Patto di Turnberry, siglato in Scozia tra Ursula von der Leyen e il presidente americano — appare come un compromesso accettabile, soprattutto se confrontato con la minaccia iniziale di un’imposizione ben più pesante, pari al 30%, prospettata da Trump. Davanti alle critiche di molte capitali europee, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, si dimostra pragmatico: «I dazi al 15 per cento per l’Ue sono il miglior risultato che si poteva raggiungere, anche se non positivo». Tuttavia, «non bisogna non essere troppo pessimisti: i dazi non fanno bene a nessuno, ma la trattativa tra gli Stati Uniti e l’Unione europea è solo all’inizio», ha ammesso.

Il fatto è che i dazi entrano in vigore, ma non c’è ancora un testo condiviso per la dichiarazione congiunta sull’accordo raggiunto tra Unione europea e Stati Uniti. Fonti diplomatiche che hanno definito i negoziati «estenuanti». E molti dossier restano ancora aperti. Acciaio e alluminio rimangono tassati al 50% alla dogana americana, nonostante le pressioni tedesche. L’automotive dovrebbe rientrare sotto l’aliquota del 15%, ma per ora mantiene un prelievo del 27,5%, perché soggetto a un dazio del 25% sotto la Sezione 232 in aggiunta all’ordinario 2,5% in vigore prima del Liberation Day. Quindi serve un Ordine esecutivo ad hoc.

Poi c’è il nodo delle esenzioni. Gli unici capitoli che sembrano già blindati riguardano aerei e componentistica, una selezione di farmaci generici e i macchinari ad alta tecnologia. Ancora da negoziare invece le deroghe per l’agroalimentare e il settore vinicolo e dei liquori. Ieri 57 organizzazioni statunitensi del comparto degli alcolici — che rappresentano anche i marchi continentali Campari, Pernod Ricard e Diageo — si sono rivolte direttamente a Trump: i dazi del 15% su vino e liquori europei, stimano, rischiano di mandare in fumo 2 miliardi di dollari di export e mettere a repentaglio 25 mila posti di lavoro negli Usa.

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7 agosto 2025 ( modifica il 7 agosto 2025 | 00:18)

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