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«Salò o le 120 giornate di Sodoma» compie 50 anni: un monumento gelido e terribile che si interroga sull’etica e il male

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22 novembre 1975: venti giorni dopo l’assassinio di Pier Paolo Pasolini all’Idroscalo di Ostia in circostanze che non saranno mai del tutto chiarite, ha luogo al festival del cinema di Parigi la prima proiezione pubblica del suo ultimo film: Salò o le 120 giornate di Sodoma. Poco prima di morire, PPP ne aveva (forse) completato il montaggio; e il film sarebbe poi uscito nelle sale italiane il 10 gennaio 1976 accompagnato da uno scandalo immediato e dalle ben note vicende inerenti al sequestro della pellicola e ai processi subiti dal produttore Alberto Grimaldi (incriminato per oltraggio al pudore e corruzione di minori). Nelle intenzioni originarie, l’opera avrebbe dovuto inaugurare una nuova serie di tre opere concepite come ideale pendant “oscuro” alla precedente Trilogia della vita (Il Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1972; Il fiore delle Mille e una Notte, 1974) e presto definite Trilogia della morte. Il progetto del primo segmento prendeva le mosse, trasponendolo nella Repubblica di Salò degli ultimi istanti del fascismo, dal romanzo Le 120 giornate di Sodoma del marchese Donatien Alphonse François de Sade intrecciandovi evidenti richiami all’immaginario dell’Inferno dantesco (suggestioni che lo stesso Sade aveva già evocato nei suoi scritti); ma la sua natura, col senno di poi, era già quella di un estremo e tormentato lascito politico e testamentario del Poeta. Benché giusto in questi giorni si sia assistendo a una vergognosa appropriazione del suo pensiero in chiave conservatrice [e chiudiamo qui la questione con una citazione inequivocabile: “Io penso (…) che il fascismo, il regime fascista, non è stato altro, in conclusione, che un gruppo di criminali al potere. E questo gruppo di criminali al potere non ha in realtà potuto fare niente: non è riuscito a incidere, ma nemmeno lontanamente, la realtà dell’Italia”], il film rappresenta il punto più alto e più cupo della riflessione pasoliniana sul Potere, sulla perdita dell’innocenza e sulla disgregazione morale dell’Italia coeva (e, per forza di cose, ancora e sempre contemporanea). Salò o le 120 giornate di Sodoma è una delle opere più estreme, lucide e disperate della storia del cinema: una riflessione sulla violenza e sulla libertà portata fino a un inaudito punto di rottura e non ritorno. La vicenda, divisa in quattro sezioni (Antinferno, Girone delle manie, Girone della merda e Girone del sangue), segue un gruppo di giovani uomini e donne rapiti da quattro Signori: un duca (Paolo Bonacelli), un vescovo (Giorgio Cataldi), un magistrato (Umberto Quintavalle) e un presidente (Aldo Valletti) che, chiusi in una villa, li sottopongono per mesi a sevizie, torture, umiliazioni sessuali e degradazioni fisiche. Attorno a loro, la violenza diventa rituale, meccanica, svuotata di desiderio. E alla fine i carnefici osservano, da lontano, la distruzione dei loro prigionieri, come spettatori di un teatro della morte. Sulla brutalità letterale di queste immagini, Pasolini costruisce un’allegoria totale del Potere d’ogni tempo. Il “fascismo” in Salò non è solo forma storica, ma una sorta di coazione cognitiva spontanea e istintuale che diventa metafora obbligata e privilegiata di ogni sistema che riduce l’uomo a oggetto (anche di consumo). Nella villa dei Signori, il corpo (parallelamente alle intuizioni di filosofi come Foucault o Baudrillard) diventa merce, linguaggio, spettacolo: una materia da usare e distruggere secondo le regole di un’economia e un’ideologia parimenti prive di etica, scrupoli o pudore. L’eros, privato di libertà, si trasforma in necrosi: e la sessualità (già politicizzata in pressoché tutta l’opera pasoliniana) diventa qui la forma più pura e atroce della dominazione. Salò segna così il compimento del percorso teorico iniziato con Teorema e Porcile sulla fine dell’innocenza del corpo e dell’immaginario. Se nel suo cinema precedente Pasolini cercava nel popolo e nel sacro una possibile resistenza alla mercificazione, qui constata che anche quei luoghi sono stati corrotti: tutto è stato assorbito dal potere del consumo, da nuovi linguaggi (come televisione e pubblicità, che già allora PPP percepiva come moderne dittature), mentre la violenza fisica del fascismo si salda con quella simbolica della società dei consumi per la natura stessa del ridurre gli individui a uno stato cosale. L’apparato formale del film è di un rigore quasi matematico, in opposizione e contrasto alla spontaneità e alla libertà della Trilogia della Vita. Pasolini elimina qui volutamente ogni possibile accenno di naturalezza, costruendo un universo chiuso e simmetrico, privo di compassione, redenzione o più semplicemente aria. La fotografia di Tonino Delli Colli è tersa e pittorica: scompone la tradizione rinascimentale e manierista italiana rielaborandone la rigidità prospettica e inserendovi figure umane spesso isolate e statiche, prive di luce divina e intrise di brutalità, in chiave severamente caravaggesca; mentre l’uso del colore e la cura per i dettagli richiamano la precisione formale dei dipinti fiamminghi e delle nature morte, declinando la violenza grafica in tableaux vivants che accentuano il carattere rituale (e scopertamente teatrale) della narrazione. L’orrore non è mai dirompente, ma misurato in una forma acida e sarcasticamente burocratica, mentre lo sguardo, freddo e frontale, crea un irripetuto cinema della constatazione: dove la crudeltà non ha lo scopo di scandalizzare, ma solo di testimoniare la degradazione biologica e ideologica dell’umano. Nella sua ferocia gelida, il film è anche una riflessione sull’atto stesso di guardare: gli spettatori dei tormenti all’interno della villa sono -evidentemente – quelli del film stesso, che partecipano alla rappresentazione della violenza, ma soprattutto sono portati ad assumerne e condividerne la colpa. Come e più che in ogni suo altro film precedente, Pasolini plasma il Cinema nella forma di un dispositivo morale, costringendo ovviamente chi guarda a interrogarsi sulla propria posizione. Ma non ci sono catarsi o conforto: solo la consapevolezza plumbea (e veggente, ovvero tuttora valida e sconcertante) che l’oscenità più enorme è la nostra abitudine a tollerare l’abuso come norma sociale, complicità silenziosa, scellerato patto d’indifferenza all’orrore. Come detto, il film fu immediatamente censurato, sequestrato, accusato di pornografia e sadismo; ma proprio questa “incomprensione” iniziale ne conferma ancor oggi la necessità. È l’ultimo atto politico del suo autore: non in forma di una condanna morale, ma di preghiera laica per il corpo violato dell’umanità. Salò è dunque fine e inizio al contempo: la constatazione che “tutto è ormai permesso”, ma anche l’estrema invocazione di una purezza impossibile che nel silenzio finale, in quelle immagini immobili di carne e di morte, celebra il funerale non solo del fascismo come aberrazione mentale, ma dell’intera civiltà del desiderio. Il nostro sguardo contemporaneo non può così che certificare come PPP non cercasse la provocazione bensì la verità: come volesse mostrare, senza filtri, la trasformazione del Potere in macchina che si nutre di corpi e coscienze e la Storia stessa come campo permanente di tortura. Solo (?) mezzo secolo dopo, Salò rimane un monumento lucido e terribile che nel suo gelo razionale non smette di interrogarci sia su ciò che resta dell’etica quando tutto diventa rappresentazione, sia sulla nostra complicità quotidiana con il Male quando si traveste da ordine. O, peggio, si permette una strumentalizzazione.

20 novembre 2025

20 novembre 2025

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