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Rodrik: «I dazi? Danneggiano prima di tutto gli Usa. Basta scontri con la Fed»

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DALLA NOSTRA INVIATA 
NEW YORK – «Il rischio più immediato di questa ondata di protezionismo innescato dal presidente Trump è il caos. Non si può nemmeno parlare di una vera politica commerciale: è una macchina che genera incertezza. Nessun investitore, imprenditore o consumatore riesce a guardare avanti nemmeno di poche settimane. I mercati finanziari sono scesi, il dollaro ha perso valore e gli Stati Uniti sono passati dall’essere un rifugio sicuro a una fonte di instabilità per il resto del mondo», sostiene l’economista Dani Rodrik, 67 anni, docente alla Kennedy School di Harvard e tra i massimi esperti mondiali di economia politica globale.

Trump sta usando i dazi come strumento politico?
«La teoria, sostenuta da alcuni consiglieri di Trump è che il deficit commerciale americano sia causato da pratiche sleali dei partner commerciali e che imponendo dazi si possano costringere questi Paesi a importare di più dagli Usa e a esportare di meno. L’idea è che in questo modo si rilancerebbe la manifattura americana. Ma tutto questo è una fantasia».

Si può reindustrializzare l’America con queste politiche?
«Assolutamente no. Anche se il deficit fosse risolto, la perdita di occupazione nel manifatturiero è dovuta a fattori molto più ampi, come l’automazione e l’intensità di capitale. I Paesi che hanno successo nella manifattura oggi non stanno creando posti di lavoro in quel settore».

Come dovrebbe reagire l’Europa, che è molto orientata all’export?
«Se fossi un decisore europeo, cercherei di ridurre il surplus commerciale con gli Usa, indipendentemente dai dazi. Gli Stati Uniti non sono più un partner affidabile. Ma questo può anche essere un’opportunità: l’Europa ha bisogno di più investimenti, sia pubblici che privati, per la transizione verde, l’innovazione e la sicurezza. Sarebbe il momento giusto per rafforzare l’economia interna».

Il Fmi ha tagliato le stime di crescita, ma non prevede recessione. E’ d’accordo?
«Siamo in un contesto mai visto prima. Penso che la situazione sarà peggiore di quanto dicano le previsioni. È difficile fare stime affidabili. Se devo guardare un indicatore, osserverei da vicino l’incertezza politica e normativa: è quella che sta influenzando di più l’economia globale».

In passato ha detto che un certo tipo di globalizzazione è finito. Con i dazi di Trump possiamo dire che la globalizzazione sia davvero finita?
«Sì, la cosiddetta “iperglobalizzazione” degli anni ’90 è finita, già prima dell’arrivo di Trump. Non torneremo a quei livelli. Non siamo però neppure negli anni ’30: vedremo più nazionalismo economico e regionalizzazione delle catene del valore, ma con ancora una discreta apertura agli scambi e agli investimenti. Serve un nuovo equilibrio tra apertura e autonomia politica nazionale».

E’ un esperto di Paesi in via di sviluppo: il modello di crescita basato sulle esportazioni è ancora valido?
«Per la maggior parte dei Paesi a basso e medio reddito, l’industrializzazione orientata all’export aveva già perso efficacia prima di Trump. La manifattura oggi è molto meno intensiva in lavoro e più automatizzata. Questi Paesi dovranno puntare più su domanda interna, servizi e lo sviluppo della classe media».

La Casa Bianca ha attaccato Harvard e congelato 2,2 miliardi di fondi pubblici e l’università ha deciso di fare causa al governo. Cosa è davvero in gioco?
«Trump segue il manuale dell’autocrate già visto in Paesi come Ungheria e Turchia: attacca tutte le istituzioni indipendenti, dai tribunali ai media, fino all’università. Non mi sorprende che Harvard sia nel mirino. Ma è incoraggiante vedere che l’università non ha accettato compromessi, scegliendo di difendere la libertà accademica e l’autonomia. Questo conflitto andrà avanti, ma si giocherà non solo nei tribunali, bensì nell’opinione pubblica».

Crede che l’opinione pubblica si schiererà con Harvard contro questo «ricatto finanziario»?
«Non è detto: le università d’élite non sono sempre popolari. Ma le richieste della Casa Bianca erano così estreme, così chiaramente un tentativo di controllo politico, che molte persone capiranno la gravità della situazione. C’è una speranza concreta che l’opinione pubblica stia dalla parte di Harvard».

Anche il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, è sotto attacco. Qual è il rischio?
«Il danno alla credibilità finanziaria degli Stati Uniti è già in corso. I mercati reagiscono negativamente ogni volta che Trump minaccia la Fed. Se arrivasse davvero a licenziare Powell, le conseguenze sarebbero immediate e molto gravi. Ma credo che, come già successo con i dazi, qualcuno riuscirà a trattenerlo. Resta però il fatto che questa amministrazione continua a spararsi sui piedi».

I tribunali sono l’ultima difesa possibile?
«I tribunali da soli non bastano. Possono aiutare, tracciando dei limiti chiari tra ciò che l’esecutivo può o non può fare. Ma serve una risposta della società civile. Senza quella, anche i giudici diventano impotenti di fronte a un potere autoritario».

E’ preoccupato? Cosa la tiene sveglio la notte?
«Sì, sono preoccupato. Quello che mi angoscia di più è il declino delle pratiche e delle norme democratiche. Le politiche economiche si possono cambiare, ma l’erosione delle istituzioni democratiche è molto più difficile da riparare. E abbiamo già perso molto terreno».

Lei è originario della Turchia. Se l’America dovesse peggiorare, tornerebbe mai indietro?
«C’è stato un tempo in cui ho pensato seriamente di tornare, ma ormai la Turchia non è più un’opzione. Anche lì la democrazia è stata erosa. Non avrei mai immaginato di dover fuggire da due Paesi diversi per ragioni simili. Guardo all’Europa come ultima speranza per la tutela dei valori liberali. Mi auguro che sia all’altezza del compito».

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23 aprile 2025

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