Ritrovare Daniele Del Giudice nel memoir di Roberto Ferrucci

di Cristina Taglietti Venezia, i discorsi, la narrativa: ne «Il mondo che ha fatto» (La nave di Teseo) un ritratto dal vero del romanziere (e di un amico) scomparso nel 2021

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Il viaggio di Roberto Ferrucci sulle tracce di Daniele Del Giudice comincia con un sacco delle immondizie, «di quelli condominiali, grandi, solidi, dal colore del pelo del Professor Popiove», il gatto certosino dello scrittore di Lo stadio di Wimbledon. I due amici sono nella cucina di Del Giudice e in quel sacco infilano una quindicina di cartelline numerate che contengono ritagli di giornale, dattiloscritti, appunti, manoscritti difficili da decifrare. Insomma un pezzo importante dell’opera di Daniele Del Giudice, del suo immaginario: alcuni entreranno nella raccolta In questa luce che Einaudi pubblicherà molto dopo, nel 2013.

Lo scambio di materiali arriva alla fine degli anni Ottanta. Ferrucci ha deciso di laurearsi con una tesi dal titolo La nuova narrativa italiana. Daniele Del Giudice e Antonio Tabucchi e lo scrittore gli offre tutte le cartelle del suo archivio, tranne quelle chiamate Racconti: «Queste no, aveva detto», ricorda con chiarezza Ferrucci. In quelle carte c’è «il mondo che ho fatto», gli dirà anni dopo. E così, Il mondo che ha fatto, si intitola il memoir in libreria per La nave di Teseo. È il racconto di una lunga amicizia — quando si conoscono, nella libreria Don Chisciotte di Mestre, Roberto ha 25 anni, Daniele 36 — e allo stesso tempo un viaggio attraverso le opere di un grande scrittore a cui la malattia ha prematuramente disgregato le parole e spettinato i gesti. Malato di Alzheimer, ricoverato per anni in una casa di cura alla Giudecca, protetto da un velo fitto di riserbo, Daniele Del Giudice è morto il 2 settembre del 2021, a 72 anni, due giorni prima che la cerimonia del Campiello gli assegnasse il premio alla carriera.

Ferrucci fa un salto in avanti di una ventina d’anni da quella sera in libreria dove Del Giudice era arrivato con una Peugeot cabriolet color bronzo. Ora c’è un vecchio articolo estratto da quel sacco, c’è Daniele che lo prende tra le mani, toglie gli occhiali e se lo avvicina al viso. Si sono dati appuntamento nel solito bar di campo San Polo, poco distante da casa di Del Giudice a Venezia. La topografia della loro amicizia è punteggiata da librerie, bar, pizzerie, case, campi. Ma ora è diverso: la malattia ha iniziato l’erosione: «Tocca a me, adesso — scrive Ferrucci — devo essere io a sostenerla, la conversazione, fatta di pause lunghissime, faticose, a cercare e non trovare, lui, le parole che mancheranno a completare le frasi, che allora completerò io, andrò a ripescare fra gli aneddoti dei nostri incontri, delle cose che abbiamo fatto insieme, in un riepilogo autobiografico per interposta persona».

È quello che Ferrucci compie in tutto questo libro, avanti e indietro nel tempo, nella scia discreta di uno scrittore ammirato che non amava i riflettori: «Ho scelto di fare questo mestiere proprio perché è un mestiere che permette di non parlare di sé, oppure di parlare di sé imbrogliando gli altri, raccontando delle cose false rispetto alla propria storia, al proprio modo di essere» dirà in un’intervista. Una nebbia spessa ha avvolto anche la sua malattia, gli anni trascorsi nella casa di riposo dove Ferrucci lo è andato a trovare spesso, a volte da solo, più spesso in compagnia di amici come Tiziano Scarpa, quasi a voler alleggerire la pena condividendola. Prima del ricovero ci sono state «giornate in cui stava meglio, altre meno» scrive Ferrucci. «Un paio di giorni di segno meno e svaniva il desiderio che aveva manifestato in un giorno di segno più, quando mi aveva incontrato per strada e stavo con il nostro amico Tiziano e lui disse che avremmo dovuto andare a cena tutti insieme, la settimana successiva. Ci chiamava, ci dava appuntamento, poi lo mancava, lo dimenticava e ci lasciava lì ad aspettarlo, consapevoli — noi — che non si trattasse di un contrattempo, desiderosi che lo fosse, convinti che non era il caso di chiamarlo per ricordarglielo, lacerati da quell’assenza che sapevamo sarebbe stata, a poco a poco, sempre più definitiva».

Eppure quello che esce dalle oltre trecento pagine di questo racconto dalla misura impeccabile, è un Daniele Del Giudice vivo, generoso, amante del volo, dei modellini, degli scherzi (al bar con Antonio Tabucchi fa credere a Ferrucci che in realtà quello sia un certo Mario di Grosseto che lavora alle poste e in effetti somiglia all’autore di Sostiene Pereira), nelle sue camicie azzurre, bianche o blu dalle maniche arrotolate, nel gesto ripetuto di accendere la pipa o togliersi gli occhiali. C’è la carriera troppo breve del narratore innovativo, la scrittura tersa che gli è valsa l’etichetta di «erede di Calvino», la competenza brillante del saggista, la passione dell’organizzatore di cultura con la rassegna veneziana Fondamenta negli anni in cui il sindaco in laguna è l’amico Massimo Cacciari.

Ci sono illuminanti lezioni di stile dettate non da una cattedra ma dalla confidenza con un amico più giovane che vuole scrivere. «Le descrizioni soltanto se davvero necessarie» gli dice quando Ferrucci gli fa leggere il primo manoscritto del suo Terra rossa (verrà pubblicato dalla Transeuropa di Massimo Canalini nel 1993), spiegandogli che in un libro dovrebbe esserci «una lettura di crociera», una specie di zero ideale da mantenere il più a lungo possibile tenendo a mente che per ogni descrizione fatta bisogna poi ripagare il lettore dello sforzo che gli si è richiesto nel leggerla.

Il mondo che ha fatto mostra la mano sensibile che caratterizza le opere di Ferrucci e la trama preziosa dei materiali di prima mano: i testi, le conversazioni, le registrazioni di conferenze e presentazioni, la maggior parte su vecchie cassette ripulite, grazie all’intelligenza artificiale, dai rumori di fondo: «Lui sapeva che sarei arrivato io con il mio registratore, da un lato credo che per lui fosse anche rassicurante, dall’altro, ridendo, mi presentava agli amici come una specie di sciagura, quasi uno stalker». E i libri, le traduzioni, compresa quella francese di Lo stadio di Wimbledon dove Daniele è scritto senza la e finale perché, aveva pensato l’editore, i lettori francesi non lo scambiassero per una scrittrice. E le innumerevoli dediche sui frontespizi: «Non le ho mai lette tutte insieme e oggi penso che farlo potrebbe essere un modo di ricostruire la nostra amicizia, potrebbero far scaturire aneddoti, luoghi, stati emotivi».

Dalla memoria esce il primo volo fatto insieme, Daniele naturalmente alla guida del piccolo aereo, sopra Trieste a «salutare Ettore», Ettore Schmitz, cioè Italo Svevo; il giro sulla barca del padre di Roberto che con Daniele parla per ore di nodi marinai, approdi, rotte davanti alla carta nautica; il gelato alle Zattere o la pizza al Jazz Club Novecento. C’è una triangolazione di scrittori, registi, fotografi che oltrepassa i confini dell’Italia. Agota Kristof è quasi una cartolina: seduta su una panchina di campo Sant’Angelo, i capelli neri, corti, a fumare una sigaretta dopo l’altra in attesa del suo incontro a Fondamenta. E Daniele che con l’amico commenta: «Ce l’abbiamo fatta a stanarla».

E poi ci sono i rimpianti, il momento in cui ci si rende conto che «non c’è più modo di fargliene nemmeno una di tutte le domande tenute nel cassetto del dubbio, della mancanza di coraggio, della discrezione». Eppure sono molti i motivi per essere grati a Ferrucci: le sue pagine malinconiche, allegre, commoventi ci restituiscono Daniele Del Giudice dopo che, per anni, pensavamo di averlo perso.

La presentazione

Il 1° marzo la presentazione del libro con Mauro Covacich al Caffè San Marco di Trieste (ore 18).

23 febbraio 2025 (modifica il 23 febbraio 2025 | 11:25)

23 febbraio 2025 (modifica il 23 febbraio 2025 | 11:25)