
Bentrovati,
si chiude oggi a Siviglia, in un silenzio mediatico assordante, la Quarta Conferenza Internazionale sul finanziamento allo sviluppo, che nell’intento degli organizzatori avrebbe dovuto rappresentare «un’opportunità unica per riformare il finanziamento dello sviluppo a tutti i livelli, dare impulso alla riforma dell’architettura finanziaria internazionale e affrontare le sfide che frenano gli investimenti urgenti necessari per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile».
Obiettivo arduo, senza gli Stati Uniti, grandi assenti al vertice Onu, che si stanno rapidamente sfilando da tutti i progetti di cooperazione internazionale. Con danni abnormi. Secondo la rivista medico-scientifica The Lancet, i tagli al bilancio di UsAid, l’agenzia statunitense per la cooperazione estera che forniva il 40% degli aiuti governativi a livello globale ed è stata praticamente smantellata, potrebbero provocare oltre 14 milioni di morti evitabili da qui al 2030, 4,5 milioni dei quali bambini.
«I finanziamenti sono il motore dello sviluppo. E in questo momento, questo motore si sta spegnendo», ha ammesso il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres nei suoi commenti di apertura dell’evento.
Anche diversi Paesi europei, dalla Gran Bretagna alla Germania, hanno deciso di spostare risorse dalla cooperazione alla sicurezza. L’Italia ha già ridotto il suo contributo sia in termini assoluti che in percentuale del Pil lo scorso anno.
Il riarmo rischia di assestare il colpo di grazia al finanziamento allo sviluppo, ossia ai progetti che dovrebbero aiutare i Paesi in via di sviluppo a migliorare le proprie condizioni di vita, a crescere e prosperare.
In questo scenario, gli interventi alla Conferenza si sono focalizzati sulla necessità di mantenere vivo il multilateralismo, e non cedere alla “trumpizzazione” delle relazioni internazionali. Il più attivo in questo senso è stato senza dubbio l’ospite spagnolo, il premier Pedro Sánchez, che ha usato il palcoscenico internazionale di Siviglia anche per distogliere l’attenzione dagli scandali che hanno travolto il suo partito. Madrid ha ribadito il suo impegno a raggiungere l’obiettivo concordato negli anni ’90 di destinare lo 0,7% del Pil alla cooperazione internazionale entro il 2030. Cifra che però è ben poca cosa rispetto al 5% del Pil che i Paesi della Nato vogliono impegnare per la spesa militare (anche se la Spagna ha detto di non voler superare il 2%). Solo Norvegia, Lussemburgo, Svezia, Germania e Danimarca hanno finora raggiunto l’obiettivo dello 0,7%.
Il documento finale della Conferenza, intitolato «Impegno di Siviglia» e concordato da 192 Paesi, è secondo El Pais «poco ambizioso e non tiene conto dell’urgente necessità dei paesi del Sud del mondo di allentare i propri impegni debitori». Nell’ultimo decennio, scrive il quotidiano spagnolo, la quota del debito pubblico in percentuale del Pil nelle economie emergenti e in via di sviluppo è cresciuta di oltre 31 punti percentuali, raggiungendo quasi il 70% . «Di fatto, il debito pubblico di questo gruppo di Paesi è cresciuto a una velocità doppia rispetto a quello dei Paesi più avanzati, raggiungendo i 32 trilioni di dollari».
Non solo. Dal 2020, il tasso di interesse a cui i Paesi in via di sviluppo prendono denaro in prestito è da due a quattro volte superiore a quello degli Stati Uniti, un Paese con un livello stratosferico di debito pubblico. Nel 2023, il servizio del debito per questo gruppo di Paesi ha raggiunto i 487 miliardi di dollari. Soldi sottratti alle politiche interne di sviluppo, alla sanità o all’istruzione.
A seguire molte altre notizie dal Global South.
Buona lettura.
Plastica fusa, alluminio e pezzi di adesivo blu: sono i detriti dei razzi di SpaceX disseminati sulla sabbia di Bagdad Beach, nel nord di Tamaulipas, in Messico, che ospita una specie di tartaruga marina in via di estinzione. A pochi chilometri dalla spiaggia, appena oltre il confine, si trova Starbase, la rampa di lancio e base dell’azienda spaziale di Elon Musk.
Da novembre, la ong Conibio Global ha cominciato a ripulire la zona dai rifiuti “spaziali”. Dopo un lancio nel maggio scorso, raccontano alla Cnn, milioni di particelle hanno contaminato l’area sul lato messicano e l’organizzazione ha raccolto più di una tonnellata di detriti in un’area di 500 metri. «Ma siamo un gruppo molto piccolo ed è impossibile pulire tutto».
Conibio Global ha consegnato i detriti al Procuratore Federale per la Protezione Ambientale. SpaceX afferma di aver offerto risorse e supporto per le operazioni di bonifica. «L’azienda ha dichiarato di aver anche richiesto assistenza locale e federale al governo messicano per il recupero dei detriti. In base al Trattato sullo Spazio Extra-Atmosferico, SpaceX ha il diritto di ottenere la restituzione dei propri detriti», scrive la Cnn.
L’azienda di Musk sostiene che non c’è alcun rischio chimico, biologico o tossicologico. Marlon Sorge, direttore esecutivo dell’Aerospace Corporation for Debris Reentry Studies, ha invece detto alla Cnn che «sebbene molti detriti non siano pericolosi, i veicoli spaziali possono contenere sostanze chimiche e materiali pericolosi».
Parte di questi rifiuti potrebbe essere comunque ingerita dalle tartarughe marine di Kemp, una specie in via di estinzione che vive nella zona.
I capi di Stato del Mercosur (Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay, Bolivia) si incontrano oggi a Buenos Aires per un vertice che guarda a Bruxelles, dove si deciderà il futuro dell’accordo di libero scambio tra l’Ue e il blocco sudamericano. Preceduto mercoledì da una riunione dei ministri degli Esteri, il vertice mira a riaffermare l’importanza dell’accordo firmato alla fine del 2024 dopo 25 anni di negoziati, ma che deve ancora essere ratificato dai Paesi europei. Consentirebbe all’Ue di esportare più automobili, macchinari e alcolici in Sud America. In cambio, faciliterebbe l’ingresso in Europa di carne, zucchero, riso, miele e soia sudamericani, con il rischio di indebolire alcuni settori agricoli europei.
Grande attenzione anche ai rapporti sempre più tesi tra Lula e Javier Milei. I due leader evitano di farsi fotografare vicini e raramente si parlano. Non è soltanto l’ideologia a dividere il presidente brasiliano, icona della sinistra latino-americana, e quello argentino, alfiere dell’anarco-capitalismo di estrema destra. Sul Medio Oriente, in particolare, hanno un approccio diametralmente opposto. Milei sostiene senza se e senza ma la posizione di Israele, Lula difende il diritto del popolo palestinese a uno stato autonomo e condanna gli attacchi di Israele a Gaza.
A margine del vertice Lula visiterà oggi Cristina Fernández de Kirchner, l’ex presidente argentina di sinistra agli arresti domiciliari per corruzione. Un incontro sicuramente indigesto per il presidente argentino Milei.
In attesa dell’accordo con l’Unione europea, i ministri degli Esteri del Mercosur hanno annunciato ieri la finalizzazione di un accordo di libero scambio con l’Associazione europea di libero scambio (AELE) che comprende Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera, Paesi non membri dell’Ue. Questo accordo, concluso inizialmente nel 2019 ma successivamente sottoposto a revisione, crea un mercato di quasi 300 milioni di persone, facilitando l’accesso del 97% delle esportazioni dei paesi coinvolti, coprendo in particolare beni e servizi, investimenti, proprietà intellettuale.
- Argentina 1/ Terrorismo. Rinvio a giudizio per una decina di elementi iraniani e libanesi sospettati di essere coinvolti nell’attentato contro la sede dell’associazione ebraica Amia a Buenos Aires nel 1994 (85 morti, foto sopra). Nell’elenco degli imputati diversi ex ministri di Teheran legati agli apparati di sicurezza del regime. Abbiamo parlato spesso qui nella newsletter di questo caso, complesso e ricco di colpi di scena, con diversi depistaggi. Ora la storia torna in primo piano in parallelo al recente scontro Israele-Iran.
- Argentina 2/ Manovre. I servizi di sicurezza hanno individuato un nucleo, noto come La Compagnia, accusato di promuovere gli interessi di Mosca e diffondere false informazioni nel paese. Sotto indagine marito e moglie che avrebbe avviato l’operazione cercando anche di infiltrarsi in Ong oppure promuovendo attività online con l’aiuto di collaboratori locali.
- Messico. Hacker al servizio del cartello di Sinaloa sarebbero riusciti ad “entrare” nel telefono di un funzionario Fbi e in questo modo hanno raccolto informazioni riservate sui contatti del bersaglio. Secondo indiscrezioni, grazie a questa breccia, hanno potuto individuare degli informatori in seguito eliminati. Inoltre hanno acquisito immagini dalle tv di sorveglianza della capitale messicana.
- Faide. Un cittadino australiano è stato ucciso e un secondo ferito in modo grave in una lussuosa villa di Bali, in Indonesia. Le vittime sono legate ad una battaglia per il controllo del mercato degli stupefacenti in Australia, contrasto che vede coinvolge gang composte anche da persone d’origine mediorientale. La polizia indonesiana ha eseguito tre fermi, compreso un ex idraulico di Sydney che avrebbe fatto parte del commando.
- Strategie. Gli Usa potrebbero spostare il comando Africa dalla Germania al Marocco. La sede è sempre stata in Europa per la difficoltà di trovare un paese disposto ad ospitarla. Se davvero il Pentagono dovesse attuare la mossa sarebbe un segnale in controtendenza in quanto Donald Trump non è parso molto interessato al teatro africano.
- E restando al Marocco c’è da segnalare un attacco di razzi da parte dei guerriglieri del Polisario contro una postazione dell’esercito a Smara, località del Sahara occidentale occupata da truppe marocchine.
- Intrecci. La polizia greca ha eseguito diversi arresti dopo che trafficanti di droga hanno sparato contro un agente dell’intelligence. Tra i fermati ci sono alcuni membri della gang turca Duran, responsabile di omicidi e altre attività illecite. Parliamo di un network che ha estensioni pericolose in diverse aree geografiche e non ha remore nel regolare i conti le armi da fuoco.
- Senza tregua. India e Pakistan, dopo il breve conflitto di qualche settimana fa, duellano attraverso gli 007. Sono diversi i casi di presunte spie individuate nei rispettivi paesi: di solito uomini e donne che conducevano attività di sorveglianza su possibili target oppure infiltrati a caccia di dati sugli schieramenti militari.
Il presidente americano Donald Trump ha firmato lunedì un ordine esecutivo che ripristina tutte le sanzioni contro Cuba, allentate dal suo predecessore Joe Biden prima di lasciare l’incarico, vieta il turismo statunitense sull’isola e tutte le transazioni finanziarie, dirette o indirette, con entità controllate dalle forze armate cubane. Washington ha inoltre inserito Cuba tra i sette Paesi che si trovano ad affrontare maggiori restrizioni per i visitatori e ha revocato le tutele legali temporanee per circa 300.000 cubani, che li avevano protetti dall’espulsione.
Il tycoon ripaga così il debito con la potente e ricca comunità di esuli cubani di Miami, che lo ha ampiamente sostenuto alle elezioni presidenziali. Già nel suo primo giorno del secondo mandato, ha ordinato il reinserimento di Cuba nella lista degli stati sponsor del terrorismo e ha ripristinato un elenco di «entità soggette a restrizioni», legate al governo cubano, soggette a ulteriori sanzioni finanziarie.
Il segretario di Stato Marco Rubio, figlio di esuli cubani, ha espresso grande soddisfazione per le nuove misure. Al contrario, da Cuba, il ministro degli Esteri Bruno Rodríguez, ha risposto su X che «il Memorandum presidenziale contro #Cuba rafforza l’aggressione e il blocco economico che punisce l’intero popolo cubano e rappresenta il principale ostacolo al nostro sviluppo. È un comportamento criminale che viola i #DirittiUmani di un’intera nazione».
Il presidente Trump ha minacciato anche di revocare i visti di funzionari cubani e di altri Paesi che violano i diritti dei medici cubani impegnati in missioni mediche organizzate dallo Stato, che il Segretario di Stato Rubio ha definito «lavoro forzato» e che secondo Washington forniscono milioni in valuta pesante al governo cubano.
Le missioni mediche cubane, in realtà, sono un supporto fondamentale a diversi sistemi sanitari caraibici, e non solo.
Già durante il suo primo mandato, dal 2017 al 2021, Trump aveva imposto sanzioni sui visti al programma medico globale di Cuba, sostenendo che tali missioni equivarrebbero a un «tratta di esseri umani» perché i medici sarebbero sottopagati. Questa volta le restrizioni si applicheranno sui visti per i funzionari governativi a Cuba e per chiunque altro, a livello globale, gli Stati Uniti ritenga «complice» dei programmi medici esteri di Cuba, compresi i governi delle nazioni caraibiche che partecipano a questi programmi.
La premier delle Barbados Mia Mottley ha definito la posizione degli Stati Uniti «ingiustificata». «Non avremmo potuto superare la pandemia senza l’aiuto degli infermieri e dei medici cubani», ha affermato. Ugualmente critico il primo ministro di Saint Vincent e Grenadine, Ralph Gonsalves: «Se i cubani non ci sono, potremmo non essere in grado di gestire il servizio sanitario. Preferisco perdere il visto piuttosto che vedere morire 60 poveri e lavoratori». Anche il ministro degli Esteri giamaicano Kamina Johnson Smith ha dichiarato che «la presenza dei medici cubani è fondamentale per il nostro sistema sanitario».
Quindici ministri degli Esteri della Comunità caraibica (CARICOM) si sono incontrati con Mauricio Claver-Carone, inviato speciale degli Stati Uniti per l’America Latina, a Washington, per esprimere la loro opposizione alle misure e chiedere chiarezza sulla politica statunitense.
Cuba invia in missione oltre 24.000 medici, che lavorano in 56 Paesi in tutto il mondo, soprattutto nelle nazioni povere, con gravi carenze di personale e infrastrutture, dove spesso i medici dopo la laurea emigrano in cerca di salari migliori. Le missioni cubane forniscono assistenza primaria, squadre di pronto soccorso e specialisti, e intervengono anche in casi di uragani, terremoti ed emergenze sanitarie. I medici cubani ad esempio hanno avuto un ruolo determinante nella lotta contro l’epidemia di colera ad Haiti, in seguito al devastante terremoto del 2010. Anche l’Italia, durante la pandemia di COVID-19, ha ricevuto squadre di medici cubani per aiutare gli ospedali sovraffollati in alcune delle sue regioni più colpite o più in sofferenza.
In Calabria, sono ancora presenti 326 medici cubani, distribuiti tra le province di Catanzaro, Vibo Valentia, Reggio Calabria, Cosenza e Crotone grazie ad un accordo tra la regione e il governo cubano prorogato fino al 2027.
La regione Calabria ha accettato che il salario dei medici cubani sia di 4700 euro mensili a testa. Parte di esso è trattenuto dal governo cubano.
Quindici cadaveri chiusi in un furgone e cinque corpi decapitati appesi a un ponte: è l’orrore senza fine della guerra fra i cartelli della droga di Sinaloa. Le autorità hanno trovato uno striscione che testimonia la lotta tra la fazione dei Figli di El Mayo e quella di El Chapo.
Dal 2024, la città di Culiacán è stato teatro di molteplici scontri armati tra fazioni rivali del cartello di Sinaloa, in particolare dopo l’arresto di due dei suoi leader, Ismael “el Mayo” Zambada e Joaquín Guzmán López.
Il sito di news tedesco DW pubblica una storia inquietante sulla produzione di pelletteria di lusso in Italia. Marchi di stilisti come Coach, Fendi e Hugo Boss, secondo un rapporto pubblicato dalla Ong britannica Earthsight, acquisterebbero «materie prime provenienti da foreste distrutte nel Pará, lo stato del Brasile settentrionale che ospiterà la Conferenza ONU sul Clima, COP30, a novembre».
L’accusa si basa su migliaia di registri di esportazioni di pelle d’origine brasiliana, dati sul settore dell’allevamento bovino, sentenze giudiziarie e immagini satellitari, nonché interviste e ricerche sul campo. La Ong sostiene che alcuni prodotti sono realizzati con pelli di bovini allevati in fattorie sotto embargo per violazioni ambientali, tra cui alcune che operano illegalmente nel territorio indigeno di Apyterewa nel Para, «pesantemente deforestato durante la presidenza di Jair Bolsonaro dal 2019 al 2022».
Earthsight ha indagato in particolare le attività commerciali di Frigol, un’azienda brasiliana di confezionamento della carne: «Almeno 17.000 capi sono stati venduti a Frigol tra il 2020 e il 2023, una quantità “sufficiente per produrre 425 tonnellate di pelle», si legge nel rapporto. Scrive DW: «Non è possibile determinare il numero esatto di capi che hanno lasciato Apyterewa, in parte perché Frigol stessa “non rintraccia la maggior parte dei suoi fornitori indiretti”. Il rapporto afferma che questa lacuna nella rendicontazione rende la “catena di approvvigionamento” dell’azienda vulnerabile alla diffusa pratica del ‘riciclaggio di bestiame'”, in cui le mucche provenienti da allevamenti illegali vengono trasferite in proprietà legalmente registrate prima di essere vendute».
In questo modo, bovini allevati in aree deforestate illegalmente finiscono per essere immessi sul mercato come se fossero legali, rendendo praticamente impossibili i controlli. «Frigol, tuttavia, ha dichiarato a DW via e-mail di non acquistare bovini da terre indigene e di monitorare il 100% dei suoi fornitori diretti», scrive il sito di news.
Dopo la macellazione negli stabilimenti Frigol, sostiene il rapporto di Earthsight, una parte delle pelli bovine viene esportata, in parte dall’azienda brasiliana Durlicouros, che ha spedito 14.700 tonnellate di pelli in Italia tra il 2020 e il 2023. «Parte di queste, secondo il rapporto, è andata alle concerie italiane Conceria Cristina e Faeda», scrive DW. Tra i clienti delle due concerie, secondo la ricerca, figurano Coach, Fendi, Chloé, Hugo Boss, Saint Laurent, Chanel, Balenciaga e Gucci.
DW cita i commenti di alcune di queste case. Chanel afferma di non collaborare più con Faeda a causa del mancato rispetto dei requisiti di tracciabilità («Il 92% della pelle di vitello che utilizziamo proviene dall’Europa e controlliamo macelli e allevamenti al di fuori dell’Europa per garantire che non si trovino in zone soggette a deforestazione»). Il Gruppo Kering, proprietario di Balenciaga, Gucci e Saint Laurent, dichiara che, sebbene le due aziende italiane menzionate nel rapporto siano loro fornitrici, «la pelle che forniscono alle case di produzione Kering non proviene dal Brasile». Hugo Boss «conferma che nessuna delle pelli» che utilizza «è collegata a nessuna delle presunte parti coinvolte nell’indagine». LVMH, proprietaria di Fendi e Louis Vuitton, dichiara di disporre di un sistema in grado di tracciare l’origine del 98% della pelle utilizzata nei suoi prodotti e di non rifornirsi di pelle proveniente dal Sud America. Tapestry, proprietaria del marchio Coach, afferma che sta lavorando per essere «parte della soluzione per migliorare la tracciabilità e la trasparenza». Chloé, Conceria Cristina e Faeda non hanno risposto alla richiesta di commento di DW al momento della pubblicazione del suo articolo.
Hanno iniziato facendo ricerca sul Monte Bianco per poi approdare in Argentina sull’Aconcagua, la vetta più alta delle Ande, con l’obiettivo studiare le malattie d’alta quota e nuove strategie per contrastarle. Stiamo parlando di due ricercatori, Giovanni Cappa, specialista in Medicina di Emergenza-Urgenza e presidente della Società Italiana di Medicina degli Ambienti Estremi (Simae), e Paolo Rodi, medico specializzando in Chirurgia Generale e del Trauma in Svizzera e presidente di BiAlp (gruppo di ricerca in medicina di montagna), accompagnati nella loro impresa da Davide Pellegrini, operatore tecnico del soccorso alpino della Stazione Pavia-Oltrepò.
I tre giovani si sono avventurati in un’impresa senza precedenti, creando un laboratorio ad alta quota sull’Aconcagua dove, attraverso una serie di test e valutazioni, sono riusciti a verificare la validità di un protocollo per il trattamento dei sintomi del mal di montagna che, nei casi più gravi, può evolvere verso condizioni potenzialmente fatali.
Quando si viaggia ad altitudini superiori ai 2.500-3.000 metri diminuisce la pressione atmosferica e questo comporta una minore quantità di aria inspirata a ogni respiro. Ciò ha conseguenze sul nostro organismo: determina infatti alcune alterazioni fisiologiche che si manifestano con il male acuto di montagna il quale, nei casi più gravi, evolve verso l’edema cerebrale o l’edema polmonare. «La maggior parte delle persone non conosce queste patologie e può rischiare grosso se non prende opportuni provvedimenti per acclimatarsi. Io e Paolo Rodi, che ci siamo conosciuti in seguito alla partecipazione a progetti internazionali in ambito della medicina dei disastri, abbiamo scoperto di avere un interesse comune sulle patologie da alta quota e questo ci ha spinto a iniziare una sperimentazione sul Monte Bianco, sfruttando la funivia che parte da Courmayeur (1300 metri) e raggiunge Punta Helbronner a 3500 metri. Nel laboratorio ad alta quota che abbiamo creato, portando tutti i materiali per la ricerca con la funivia, abbiamo iniziato a studiare un nuovo protocollo per il trattamento dei sintomi del mal di montagna, con risultati incoraggianti».
«Per ottenere risultati più chiari a vette più alte, dove i sintomi del mal di montagna sono più evidenti, e confermare l’efficacia del protocollo, abbiamo deciso di organizzare una spedizione in Argentina sull’Aconcagua, la montagna che più si presta alla sperimentazione clinica per una serie di motivi – continua Cappa -. L’Aconcagua è infatti la montagna più alta delle Americhe e, per alpinisti esperti, non risulta troppo complesso raggiungere i 7000 metri di altitudine. Si riesce a raggiungere la vetta camminando con ramponi senza necessità di fare cordate». E così a inizio febbraio 2025 è partita la spedizione, patrocinata dal Club Alpino Italiano (Cai), dalla Società Italiana di Medicina degli Ambienti Estremi (Simae) e dall’Università di Zurigo, e resa possibile, trattandosi di un progetto di ricerca indipendente, grazie al contributo di numerosi sponsor.
Gli stessi test che erano stati effettuati nelle sessioni precedenti sulle Alpi (a cui hanno partecipato anche Leonardo Menon, medico specializzando in Anestesia e Rianimazione dell’Università di Torino, e Bruno Barcella, medico del Pronto Soccorso di Pavia) sono stati ripetuti, ma sulle quote ben maggiori delle Ande, in particolare a 4.300, 5.500 e 6.000 metri, dopo aver portato a più riprese le attrezzature necessarie, senza l’aiuto di portatori e guide locali. «Abbiamo fatto studi su mal di montagna, edema polmonare ed edema cerebrale da alta quota. In particolare, siamo andati a ricercare segni e sintomi di queste patologie e abbiamo testato un protocollo di trattamento che prevede l’uso di maschere Cpap, alimentate a pressione positiva senza ossigeno aggiuntivo, e altre maschere specifiche con cui bisogna respirare contro la resistenza di una valvola a pressione. In questo modo si fa più fatica a espirare e questo aumenta un po’ la pressione nei polmoni e apre alcuni alveoli che erano chiusi: si fa “reclutamento alveolare” in termini tecnici. Ebbene sedute di 5-10 minuti con questi dispositivi hanno ridotto i sintomi e migliorato la saturazione dell’ossigeno nel sangue. Di recente abbiamo presentato i nostri risultati preliminari a un congresso internazionale a Tokio e subito dopo al Congresso Italiano di Medicina Emergenza ed Urgenza. Ora stiamo scrivendo un articolo scientifico che contiamo di pubblicare presto». La spedizione si è conclusa con la donazione alla comunità locale di medici di grandi quantità di farmaci di emergenza per il mal di montagna che i ricercatori avevano raccolto prima del viaggio con il contributo del Rotary di Pavia Porta Nuova.
L’Africa è il continente più ricco di materie prime del pianeta: il 40% delle riserve auree mondiali, il 30% di quelle minerarie, il 12% del petrolio e l’8% del gas naturale. Tanto dovrebbe bastare per garantire ai suoi 1,5 miliardi di abitanti un futuro di benessere. Dopo un secolo e mezzo di sfruttamento da parte dei governi coloniali instaurati da Francia, Gran Bretagna, Belgio, Germania, Spagna, Portogallo, 65 anni fa con l’inizio della decolonizzazione i 54 Paesi hanno preso in mano il proprio destino. Sulla carta.
Nella realtà uscire da condizioni di sfruttamento secolare, dalle guerriglie fra fazioni per il controllo delle materie prime e dalla sistematica cleptocrazia dei governi, è ben più complesso.
Analizziamo le storie di 4 Stati tra i più ricchi di risorse minerarie ed energetiche: la Repubblica Democratica del Congo, leader nelle esportazioni di cobalto, coltan e rame; l’Angola e la Nigeria con i loro enormi giacimenti di petrolio e lo Zimbabwe, sottosuolo pieno di oro, diamanti e litio,
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Gli ultimi dati dell’Istituto Nazionale di Statistica e Censimento (INDEC) fotografano un’Argentina a due velocità. Aumentano il turismo all’estero, grazie al tasso di cambio favorevole, e le vendite di auto nuove. D’altra parte, aumenta la fetta di popolazione che utilizza la carta di credito, indebitandosi, per fare la spesa al supermercato.
Durante i primi cinque mesi dell’anno, più di sei milioni di argentini hanno fatto una vacanza all’estero e questo ha generato uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti (variazione tra l’ingresso e l’uscita di dollari) che ha raggiunto i 5.191 milioni di dollari USA durante il primo trimestre del 2025. Per quanto riguarda il settore automobilistico, l’INDEC ha riportato che da gennaio a marzo è stato venduto il 95,1% di veicoli in più rispetto allo stesso periodo del 2024.
L’altra faccia della medaglia, leggendo i dati INDEC, è che alcune famiglie si indebitano a lungo termine per acquisire il necessario. Ad aprile, l’uso delle carte di credito è infatti aumentato del 57,1% su base annua, e questo spiega quasi la metà degli acquisti totali in quel mese.
L’economista Fernando Soliño, intervistato dalla Cnn, individua tre fenomeni socio-economici: 1) un settore finanziario che ha beneficiato delle fluttuazioni del tasso di cambio negli ultimi anni e che oggi, con la stabilità del dollaro, ha perso il vantaggio che aveva; 2) una crescita reale dell’assistenza sociale per i settori più poveri; 3) una parte della classe media che nonostante il rallentamento dell’inflazione non vede migliorare il proprio potere di acquisto, poiché l’aumento dei salari non tiene il passo con l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. «Non esiste una politica di tutela dei consumatori e, nella quotidianità, ciò comporta un ritardo nella crescita di molti settori della società», afferma l’economista.
Il rapporto INDEC rileva anche che nel primo trimestre del 202 il 7,9% degli argentini, pari a 1,1 milione di persone, è risultato disoccupato. È l’1,5% in più rispetto all’ultimo trimestre del 2024. Secondo il governo, però, il dato fotografa non una perdita di lavoro ma una maggiore domanda di persone che si inseriscono nel mercato formale.
Un tribunale dell’Ecuador ha condannato lunedì l’ex vicepresidente dell’Ecuador, Jorge Glas, a 13 anni di reclusione per peculato nel caso «Ricostruzione di Manabí», collegata agli appalti edilizi successivi al terremoto di magnitudo 7,8 che colpì le province costiere di Manabí ed Esmeraldas nell’aprile del 2016.
È la terza condanna per corruzione per Glas, attualmente detenuto nel carcere di massima sicurezza La Roca a Guayaquil. Il suo arresto, lo scorso anno, portò alla rottura delle relazioni diplomatiche fra Messico ed Ecuador. L’ex vicepresidente fu catturato dentro l’ambasciata messicana a Quito durante un’irruzione della polizia nella sede diplomatica.
Un giorno dopo l’annuncio della nuova condanna per corruzione, la Commissione Interamericana dei Diritti Umani ha richiesto misure provvisorie alla Corte Interamericana dei Diritti Umani per Glas. La CIDH ritiene che Glas «si trovi in una situazione di estrema gravità e urgenza, con un danno irreparabile ai suoi diritti alla vita, all’integrità personale e alla salute».
Secondo l’ufficio del Procuratore Generale dello Stato, il caso “Ricostruzione di Manabí” ha indagato sull’uso improprio di fondi pubblici destinati alla ricostruzione e alla ripresa economica da parte di una commissione guidata da Glas in seguito al terremoto del 2016. L’avvocato di Glas ribatte che il suo assistito non gestiva fondi pubblici né promuoveva l’appalto di progetti.
Il Ministero degli Affari Esteri messicano ha reagito alla sentenza ribadendo la sua richiesta di concedere all’ex vicepresidente un lasciapassare per recarsi in Messico o in un Paese terzo designato, considerando che le sue condizioni di salute sono delicate e che gode di asilo diplomatico. L’Ecuador ha ribadito che non concederà il lasciapassare, ritenendolo illegale.
C’è stato un momento in cui Luiz Inácio Lula da Silva è stato, per il Brasile e non soltanto, l’uomo giusto al momento giusto. Le sue politiche sociali a beneficio dei più poveri – con programmi come Fome zero e Bolsa familia – sono state a buon diritto lodate e copiate. Come scrive l’Economist, «durante i suoi primi due mandati presidenziali, dal 2003 al 2010, il Brasile ha raccolto i frutti di un boom delle materie prime, e lui è stato uno dei leader più popolari al mondo. La sua forza in patria gli ha conferito credibilità all’estero, e molti dei suoi pari lo consideravano un punto di riferimento per le economie in rapida crescita». Il settimanale britannico, però, è impietoso nell’elencare i tanti modi in cui il presidente brasiliano, nel suo attuale mandato, sta dilapidando tutto il patrimonio di popolarità e credibilità accumulato in passato.
Con un gioco di parole, potremmo dire che, uno dei mattoni caduti sulla testa di Lula sono i Brics (acronimo per Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, a indicare i Paesi in ascesa, ma che in inglese significa anche, per l’appunto, mattoni). Quell’alleanza – che si riunirà proprio a Rio de Janeiro domenica e lunedì prossimi – in verità assai blanda e non priva di contraddizioni e contrasti fra i Paesi membri, si è allargata. Ma l’ingresso di Paesi come l’Iran (oltre a Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Indonesia) non ha probabilmente giovato alla sua autorevolezza internazionale.
Vale anche per Brasilia. «In origine – scrive l’Economist – esserne membro aveva offerto al Brasile una piattaforma da cui esercitare un’influenza globale. Ora fa apparire il Brasile sempre più ostile all’Occidente. “Più la Cina trasforma i Brics in uno strumento della sua politica estera, e più la Russia usa i Brics per legittimare la sua guerra in Ucraina, più difficile sarà per il Brasile continuare a dichiararsi non allineato”, dice Matias Spektor della Fundação Getulio Vargas di São Paulo».
Probabilmente se ne stanno rendendo conto anche i diplomatici brasiliani, visto che hanno cercato di togliere dall’ordine del giorno del summit dei Brics i temi più spinosi (tipo le spinte a sostituire il dollaro come moneta per gli scambi), concentrandosi su cooperazione su vaccini e assistenza sanitaria, transizione verso l’energia verde e mantenimento dello status di nazione più favorita come base per il commercio internazionale. «Siamo in un momento di contenimento dei danni più che di creazione di nuovi strumenti», ammette all’Economist un alto diplomatico brasiliano.
Purtroppo gli «azzardi diplomatici» del presidente Lula – tipo la presenza sulla Piazza Rossa di Mosca nel Giorno della vittoria (ne aveva scritto anche Sara Gandolfi nella sua newsletter Mondo Capovolto) – non sono molto d’aiuto al riguardo. «Il ruolo del Brasile al centro di un Brics allargato e dominato da un’influenza sempre più autoritaria è parte integrante della politica estera sempre più incoerente di Lula», sentenzia l’Economist, ricordando che il presidente brasiliano non ha ancora incontrato Trump ma, in compenso, oltre ad essere a Mosca il 9 maggio accanto a Putin, ha invece già incontrato due volte il leader cinese Xi Jinping nell’ultimo anno. «Forse – concede il settimanale – la strategia più sensata di Lula è stata quella di approfittare della perdita di fiducia del mondo negli Stati Uniti come partner commerciale. Si è avvicinato all’Europa e ha ampliato i legami commerciali. A marzo ha visitato il Giappone, che importa la maggior parte della sua carne bovina dagli Stati Uniti, per promuovere la carne brasiliana come sostituto. I suoi ministri hanno incontrato i burocrati cinesi per discutere di come aumentare le importazioni agricole brasiliane, probabilmente a scapito di quelle americane. Ma questo comporta sforzi grandiosi, che superano di gran lunga il peso del Brasile sulla scena mondiale».
Anche nei dintorni di casa, Lula non si sarebbe mosso con particolare acume, prendendo le distanze con colpevole ritardo dal Venezuela del sempre più dittatoriale Nicolás Maduro, rifiutando ogni dialogo con l’argentino Javier Milei, che ideologicamente è in pratica il suo opposto e lasciando precipitare in una deriva anarco-delinquenziale Haiti, dopo aver guidato la missione Onu per stabilizzare l’isola in seguito al terremoto del 2010. E non è nemmeno riuscito a compattare un fronte centro-sudamericano per opporsi alle politiche draconiane di Trump per respingere i migranti.
Qualcuno potrebbe obiettare che, agli occhi dell’Economist e di altri, la vera colpa di Lula è di non volersi allineare senza fiatare alle posizioni dell’Occidente. In proposito, però, secondo il settimanale inglese anche il fatto che finora Trump ha evitato di criticare il presidente brasiliano potrebbe essere più un sintomo di debolezza che di forza: «In parte, ciò potrebbe essere dovuto al fatto che il Brasile beneficia di qualcosa che nessun’altra grande economia emergente possiede: un enorme deficit commerciale con gli Stati Uniti, pari a 30 miliardi di dollari in beni e servizi all’anno. A Trump piace certamente quando gli altri Paesi acquistano dagli Stati Uniti più di quanto vendano loro. Ma il suo silenzio potrebbe anche essere dovuto al fatto che il Brasile, relativamente distante e geopoliticamente inerte, semplicemente non conta poi così tanto quando si tratta di questioni belliche in Ucraina o in Medio Oriente».
La perdita di peso a livello internazionale è andata di pari passo, secondo l’Economist, con un calo di popolarità interno. In buona parte dovuto a cambiamenti che Lula non ha percepito o non è riuscito a contrastare in tempo. «Il Paese si è spostato a destra. Molti brasiliani associano il suo Partito dei Lavoratori alla corruzione, a causa di uno scandalo che lo ha portato in carcere per oltre un anno (la sua condanna è stata poi annullata). Ha costruito il partito con il sostegno dei sindacati, dei cattolici impegnati socialmente e dei poveri, beneficiari dei sussidi statali. Ma oggi il Brasile è un Paese in cui il cristianesimo evangelico è in piena espansione, dove l’occupazione in agricoltura e nella gig economy è in rapida crescita, e dove anche la destra offre sussidi».
I numeri dei sondaggi sono impietosi: il tasso di approvazione personale di Lula si aggira intorno al 40%, il più basso mai registrato durante i suoi tre mandati. Solo il 28% dei brasiliani dichiara di approvare il suo governo. Il 25 giugno il Congresso lo ha umiliato respingendo un decreto da lui approvato per aumentare le tasse. «Era la prima volta in oltre 30 anni che i legislatori ribaltavano un decreto esecutivo, e questo lascerà il governo con meno margine di spesa in vista delle elezioni generali del prossimo anno».
Si potrebbe obiettare che il leader della destra brasiliana non è certo messo meglio. Jair Bolsonaro, «il Trump dei tropici», potrebbe essere presto incarcerato per aver pianificato un colpo di Stato per rimanere al potere dopo la sconfitta alle elezioni del 2022. Deve ancora nominare un successore alla guida della destra. «Ma se lo facesse e la destra si stringesse attorno a esso prima delle elezioni del 2026, la presidenza sarebbe nelle sue mani», pronostica il settimanale britannico. Consiglio finale non richiesto: «Lula dovrebbe smettere di far finta di contare (a livello globale, ndr) e concentrarsi su questioni più vicine a casa sua».
(Guido Olimpio) Qualche tempo fa il Corriere ha pubblicato una recensione di “L’isola inaccessibile” (Ciost Edizioni), la storia vera di due fratelli che per quasi due anni vivono su una piccola “roccia” nel sud dell’Atlantico. Ho letto il libro, è bellissimo. Una boccata d’ossigeno e d’avventura in questo periodo cupo. Ve lo consiglio.
«La storia di Almerigo è una storia importante, di un uomo coraggioso che faceva conoscere ciò che era nascosto, che non si conosceva perché non c’erano immagini che lo mostravano. Dobbiamo a lui la conoscenza di una realtà, quella del Mozambico, grazie al coraggio di andare sul campo e rischiare la vita. Come purtroppo poi è avvenuto per lui». Sono le parole del cardinale Matteo Zuppi a evocare in un video la figura controversa di Almerigo Grilz in occasione della presentazione del film a lui dedicato, Albatross di Giulio Base, in uscita il 3 luglio.
Classe 1953, fotoreporter, inviato di guerra in Medio Oriente, Asia e Africa per conto dell’agenzia fondata nel 1983 con Gian Micalessin e Fausto Biloslavo, Grilz fu ucciso il 19 maggio 1987, in Mozambico mentre era al seguito dei miliziani della Renamo. Veniva dalla militanza nell’estrema destra a Trieste, più volte denunciato, fu vicesegretario nazionale del Fronte della gioventù, arrivò a un passo dalla candidatura con il Msi di Giorgio Almirante.
Nel film Base contrappone a Grilz (Francesco Centorame) una figura di fantasia, Vito, prima militante del movimento studentesco poi giornalista (Michele Favaro da giovane, poi Giancarlo Giannini). « Albatross non vuole essere né un ritratto celebrativo né un atto d’accusa. È un tentativo di avvicinarsi alla vita di un giovane uomo attraversando i contrasti della sua epoca. Ho approcciato quegli avvenimenti senza tesi precostituite, lasciando spazio al dubbio. Non c’è propaganda né reticenza, ma cinema e complessità».
Cita un’altra inviata, Giovanna Botteri. «Come dice lei, “noi siamo testimoni, non siamo tifosi”. Ecco, mi piacerebbe che questo film fosse un invito alla sospensione di giudizio. Uno stimolo a prestare sincera attenzione a chi ci sta di fronte. Spero che le eventuali critiche e polemiche arrivino dopo aver visto il film».