
«Era una jam session vocale, una conversazione oziosa, dis-utile come la chiamavo io. Dove ognuno diceva la sua. Niente di preparato, tutto improvvisato». Quelli della notte è diventato un cult in appena 32 puntate. Oggi un programma così continuerebbe all’infinito, invece Arbore capì subito che quel successo non andava cavalcato («il programma era esaurito, aveva detto la sua, così mi inventai una cosa completamente diversa»). Sono passati 40 anni (prima puntata il 29 aprile del 1985) da quell’intuizione: un «salotto televisivo» inteso nei suoi tratti più grossolani e malriusciti, nei quali il risultato era un caotico «raccoglitore» di chiacchiere senza costrutto, dal risultato però nettamente ironico. «Ero reduce dal successo di Cari amici vicini e lontani, il programma dedicato ai 60 anni della radio, che aveva raggiunto anche i 18 milioni di spettatori. Era un programma nostalgico e io ero spaventato: avevo paura di diventare un alfiere del passato, un presentatore per nostalgici. Cercavo qualcosa di nuovo e inventai una sorta di sitcom live».
Come nacque «Quelli della notte»?
«L’idea mi venne pensando al caos delle riunioni di condominio, ma anche alle conversazioni scombiccherate — disutili — di noi nottambuli a Foggia, fra pettegolezzi locali e massimi sistemi, tirate via, senza alcuna competenza».
Le sue «reclute» furono un azzardo. Erano tutti sconosciuti.
«Mi buttai con 40 facce nuove, erano tutti sconosciuti, a parte io e Giorgio Bracardi. Fino ad allora il varietà televisivo era stato quello di Falqui, di Pippo Baudo, di Corrado, di Raffaella, rifiniti in molte settimane di prove. E io invece feci proprio il contrario. Una jam session della parola, ispirata alle jam session della musica».
I ruoli, i personaggi, furono inventati da lei e Ugo Porcelli. Nino Frassica interpretava frate Antonino da Scasazza.
«Parlava proprio come certi frati che avevo conosciuto a Foggia… Avevo capito subito, dai messaggi che mi lasciava in segreteria telefonica, che Nino era molto bizzarro. Quando poi ho chiamato per la prima volta a casa sua, la madre non credeva fossi io, pensava a uno scherzo. Dissi a Nino di venirmi a trovare appena gli fosse capitato di passare da Roma. Il giorno dopo era sotto casa mia. Nino ha sempre avuto lo swing».
Maurizio Ferrini era il comunista romagnolo, rappresentante di pedalò della ditta «Cesenautica».
«Si ispirò al padre, che era un comunista ortodosso. Maurizio era anche il primo antimeridionale, un leghista ante litteram, che si era inventato il muro di Ancona per separare nord e sud».
Riccardo Pazzaglia invece era il letterato che si lamentava del tenore della discussione: «Il livello è basso».
«Riccardo era un grande artista, un grande umorista, ha scritto capolavori per Modugno. Era molto riluttante ad andare in video, ma lo convinsi e lo spinsi a ispirarsi a un vero intellettuale, Alberto Ronchey. Inventava grandi dibattiti, cose come: dove finisce l’infinito. In quella comitiva piena di cialtroni e gente stralunata finiva puntualmente sconfitto dalla banalità di Massimo Catalano, maestro del discorso lapalissiano».
Catalano, appunto, il filosofo dell’ovvio.
«Gli chiesi di dire le banalità che io stesso dicevo quando la gente mi fermava per strada e si aspettava di sentire da me grandi concetti. Ridevo per primo di me stesso tirando fuori ovvietà su ovvietà».
Simona Marchini?
«Fu la prima a parlare di gossip in televisione con le sue digressioni telefoniche sui flirt dei vari personaggi, un’idea venuta nelle telefonate con Roberto D’Agostino, quando parlavamo di Milva e Orietta Berti».
Marisa Laurito era sempre in cerca di Scrapizza, il suo fidanzato latitante.
«Era il modello delle comari parlerecce che animano certi pianerottoli raccontando tutti i fatti di famiglia, quelle cugine che sanno le cose della famiglia, di tutti».
Roberto D’Agostino, l’artista dell’effimero.
«Con la sua cultura aggiornatissima, le letture di Milan Kundera che fecero volare le vendite dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, il lookologo che poi diventò tuttologo, anticipò i tempi di oggi in cui la tuttologia imperversa. Parlò per primo di edonismo reaganiano, capì subito che gli anni Ottanta avevano cancellato gli anni di Piombo».
Andy Luotto?
«Gli feci fare la parte di un arabo, ispirato da un viaggio in Giordania dove mi ero innamorato delle notti arabe, animate da un vociare continuo, fatte di chiacchiere che si protraevano fino alla notte più nera».
A un certo punto avete dovuto toglierlo: ci furono proteste e Andy Luotto fu anche minacciato di morte.
«Molti arabi lo apprezzavano, ma c’erano anche quelli che invece alla parola Allah iniziarono a protestare. Un vicedirettore Rai mi telefonò e disse che era stato chiamato da Andreotti a nome del re di Giordania. L’arabo Luotto finì lì».
La tv di oggi?
«Guardo soprattutto la televisione improvvisata, nella sua declinazione “seria”, ovvero i dibattiti e, ahimè, i talk show politici: la televisione verità. Dove verità significa che ognuno dice la sua»
23 aprile 2025
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