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Quei contatti «segreti» tra Giorgia e Elly sulla legge elettorale

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Per Meloni è più facile affrontare i dossier internazionali che la legge elettorale nazionale. Ma anche di questo deve occuparsi la premier. E lo sta facendo. Pure con le opposizioni. La storia che i leader dei due schieramenti non si vedano, non si sentano e non si parlino fa parte dell’ipocrisia di Palazzo. Per esempio, i primi contatti di Meloni con Elly Schlein sulla riforma del sistema di voto risalgono a molti mesi fa. Ultimamente i rapporti si sono raffreddati, ma le comunicazioni proseguono attraverso gli ufficiali di collegamento. Altrimenti non si capirebbe come mai la presidente del Consiglio è al corrente dei problemi che affliggono la leader del Pd sulla materia, e viceversa: la prima deve gestire le tensioni che il tema suscita nel centrodestra, la seconda deve stare attenta a non saltare sulla mina nel centrosinistra.

Ma è certo che a Schlein piacerebbe un modello elettorale simile al sistema regionale: proporzionale con soglie di sbarramento, premio di maggioranza per la coalizione vincente e indicazione del premier. Sembrerebbe facile, se non fosse che il diavolo si nasconde nei dettagli. E poi è noto che i partiti di opposizione privilegiano l’attuale meccanismo di voto: ritengono di avere già la vittoria in tasca perché secondo i loro calcoli farebbero man bassa di tutti i collegi al Sud. Tale è l’entusiasmo che, oltre agli organigrammi del futuro governo, sono stati già contattati alcuni funzionari di Stato per inserirli nella lista dei capi di gabinetto ai ministeri.

In linea di principio però, se la maggioranza decidesse di mettere la mano alla riforma, Schlein preferirebbe un simil Tatarellum a livello nazionale. Come ha spiegato a un leader di partito, quel modello le permetterebbe di risolvere una volta per tutte la questione della premiership con Giuseppe Conte, al quale proporrebbe le primarie di coalizione per stabilire il candidato del centrosinistra a Palazzo Chigi. L’argomento è da maneggiare con cura, perché il capo del Movimento continua a sognare un ritorno alla presidenza del Consiglio e scatenerebbe l’inferno se annusasse puzza di accordo tra «Giorgia» ed «Elly».

Perciò la premier e la segretaria del Pd dovranno sempre smentire di aver anche solo parlato di legge elettorale. E non potranno mai ammettere di aver ipotizzato un’intesa. D’altronde anche Meloni ha un problema, prigioniera com’è di un sortilegio che lei stessa si è praticata: il Tatarellum sconfesserebbe infatti il premierato al quale è legata. La contraddizione sarebbe palese. A meno di non seguire il sentiero che suggerisce un’autorevole personalità del centrodestra, secondo cui «il piano B potrebbe salvare il piano A». Traduzione: «Una nuova legge elettorale con l’indicazione del premier potrebbe essere presentata come una tappa di passaggio, funzionale alla successiva riforma costituzionale. Da varare nella prossima legislatura, come un’integrazione».

Un vero rompicapo. Da risolvere in breve tempo. Perché da una parte c’è chi nel governo medita un ulteriore passaggio parlamentare per il premierato, dall’altra c’è chi insiste invece per accelerare i tempi sulla legge elettorale «entro la fine dell’anno»: immaginare di discutere la riforma a ridosso delle elezioni — questa è la tesi — non sarebbe possibile, «perché il centrodestra offrirebbe un’immagine di debolezza al Paese alla vigilia del voto e perché il Quirinale non consentirebbe un cambio delle regole del gioco all’ultimo momento».

Il nodo andrà sciolto e andrà calcolata la forza numerica: affrontare le Camere con il solo accordo di maggioranza sarebbe rischioso. Potrebbero venire in soccorso parte dei centristi, ai quali andrebbe garantita una soglia di sbarramento bassa per tornare in Parlamento. Quanto a Schlein, Meloni è consapevole che la leader dem non potrebbe muoversi. Per evitare di sfasciare il centrosinistra avrebbe una mossa obbligata: dichiararsi formalmente contraria. È già accaduto però al centrodestra di cambiare la legge elettorale in solitaria: fu ai tempi del Porcellum. Allora il Pd salì sulle barricate. Poi si capì dai voti a scrutinio segreto che la riforma non gli dispiaceva.

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13 giugno 2025 ( modifica il 13 giugno 2025 | 23:10)

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