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Puoi Avati, David di Donatello alla carriera: «Io, premiato dopo 55 film»

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Pupi Avati, 86 anni, l’arguzia, l’ironia, la battuta salace, la cultura umanista. Il 7 maggio riceverà il David di Donatello alla carriera.

Sa già cosa dirà?

«Penso a una riflessione che vado facendo da tempo. Ci sono due opzioni per vivere le cose. La prima capita a quei colleghi che hanno un immediato riconoscimento al loro esordio o quasi, penso a Tornatore, Salvatores e ora a Maura Delpero con Vermiglio, ma gli Oscar sono diversi dai David. Oppure a Orson Welles che dopo Quarto Potere per tutta la vita rincorse quel primo successo senza mai raggiungerlo. Io ricordo che riuscii ad andare al Festival di Venezia con Gita scolastica dopo averci provato come un barbaro per 15 anni».

Il David alla carriera è un riconoscimento tardivo?

«No, consapevole. Avranno pensato: non possiamo non darglielo. Somiglia un po’ (nel mio piccolo) alla caduta del Muro di Berlino, è una breccia che si apre. Lo apprezzo di più ora, dopo 55 film. E mi auguro che verranno altri premi. Dieci anni fa non me lo avrebbero mai dato, per ragioni di appartenenza politica, o di non appartenenza. Sono un liberale ma anche un cane sciolto. Ci sono colleghi che non la pensano come me (ma sul cinema sì) che mi stanno mandando messaggi di rallegramenti».

Il cinema è un fatto di conventicole e amichettismo?

«Si dovrebbe stabilire chi sono quelli bravi e quelli non bravi. Non è sufficiente avere un’opinione per fare un bel film. Se il cinema è un mondo ipocrita e conformista dove lavorano sempre gli stessi? Lo è stato per anni, i privilegiati, gli avvantaggiati da posizioni di rendita, la Roma dei salotti, come nella letteratura».

Cosa è cambiato?

«Ora ognuno di noi ha il suo percorso difficile ed è un calvario per tutti, perché manca la competenza di chi gestisce il cinema. Penso anche alle commissioni di chi decide i finanziamenti pubblici, per cui Paola Cortellesi e Le assaggiatrici di Soldini furono bocciati. Ecco perché sono venuto allo scoperto con la richiesta di un ministero del cinema, e due disegni di legge bipartisan sono allo studio».

La destra ha un atteggiamento da resa dei conti col cinema, territorio «rosso»?

«Non è più così, l’appartenenza politica non paga più, infatti premiano me. Direi che torna il buon senso».

Lei ha detto di essere un fallito per non aver fatto il capolavoro, e di aver fatto film non commerciali, alcuni belli altri meno, ma tutti con un pensiero dietro.

«Io spero di non farlo mai il capolavoro, il film in cui sei totalmente appagato, il riassunto di tutta la vita. E’ come Dante nell’ultimo Canto del Paradiso: dopo che arrivi a Dio, dove vai? Io cerco il senso di incompiutezza e inadempienza che le persone anziane hanno in prossimità dei loro titoli di coda, il non aver incontrato tutti i film e i libri o le persone che desideravi. Avrei voluto frequentare molto di più Claudio Magris, provo una grande attrazione intellettuale per lui. La vita ti dà la possibilità di fare cose fantastiche, ma solo per una porzione. E comunque io non mi sono mai fermato».

Il cinema come una catena di montaggio?

«Sì, la creatività è un muscolo che va usato per rafforzarlo».

I suoi film sono soprattutto con uomini protagonisti. Invece, lei e le attrici?

«Le mie scelte giovanili femminili erano dettate da ragioni estetiche, la verità inconfessabile è che ho cercato di diventare seducente col cinema. Nell’Italia ingenua e di provincia in cui sono cresciuto, ho patito di non piacere. Poi nella mia vicenda affettiva ho scoperto il grande mistero delle donne, che va oltre il loro aspetto ed è qualcosa di imperscrutabile. Nella mia ultima età, dopo 60 anni, mi sono rinnamorato di mia moglie, del fatto che mi abbia regalato la sua vita».

Con lei, Sharon Stone fece il suo film italiano.

«Viveva il copione come un atto notarile, non si poteva cambiare una virgola. Ma tutti gli attori americani sono rigidi, non immaginano che si possa avere all’improvviso un’idea, ti guardano come se fossi un pazzo. Fellini mi confidò di avere sofferto molto con Donald Sutherland».

Dei suoi jolly, Greggio, Cremonini, Ricciarelli, chi ha amato di più?

«Dirò Abatantuono, perché in Regalo di Natale ebbe una trasformazione antropologica, totale, diventò un altro, anche nella vita. Sui miei attori fissi direi il mio amato Carlo Delle Piane, l’outsider che il cinema ha usato per la sua maschera in modo bieco».

Le sale ci saranno ancora tra qualche anno?

«Saranno come quando si ascolta un Quartetto di musica classica, ci andranno i competenti, i veri amanti. Il successo del cinema coinciderà con la qualità».

Pupi, in cosa è diventato romano, dopo 55 anni nella Capitale?

«Ah…In niente. Continuo a vedere Roma da bolognese, mi guardo attorno con la riconoscenza del turista: ma che fortuna che ho a vivere qui. Poi è una città incasinata, ma ho ottenuto l’accoglienza che si chiama indifferenza che è fondamentale per chi fa cinema. Io sono uno specialista dele cadute, a Bologna c’era chi brindava a champagne ai miei insuccessi giovanili, quando facevo fallire i produttori. Il grande dono dei romani è che se ne fregano di te, ti permettono di andare al tappeto e di rialzarti».

Ha paura della morte?

«Ho paura per chi rimane dopo. Io ancora rimprovero mia madre di avermi lasciato. Immagino la morte come la scena di un film. Giro, dico stop, e mi abbandono per sempre. La morte sul campo, come Molière a teatro, come Sinopoli sul podio».

27 aprile 2025

27 aprile 2025

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