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Provost (Renault): «La crisi dei chip il nostro “cigno nero”. Ma il problema è il prezzo delle auto»

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Pandemia, carenza di semiconduttori, inflazione delle materie prime, dazi: l’industria dell’auto ha affrontato negli ultimi quattro anni una serie di crisi che hanno messo a dura prova la tenuta della filiera dell’auto, la più globale di tutte. «La crisi dei chip è stata il “cigno nero” che ci ha fatto capire che non sapevamo da dove venissero i componenti delle nostre auto», ricorda François Provost, responsabile degli acquisti di Renault e, secondo indiscrezioni, fra i candidati a succedere a Luca de Meo nel ruolo di ceo della casa francese. «La nostra filiera era un po’ una scatola nera: abbiamo deciso di aprirla per vedere quali rischi conteneva e come gestirli», aggiunge, «Ora, nel confermare una certa tendenza alla deglobalizzazione, la guerra dei dazi obbliga noi costruttori a conoscere meglio la nostra catena di approvvigionamento e ad anticipare i punti dove potrebbe rompersi».

Quando avete capito di non conoscere a fondo la filiera?
«Negli ultimi 20-30 anni i costruttori si sono affidati ad aziende che assumevano la responsabilità di produrre grandi componenti come il sistema frenante, il cruscotto, i sedili, i software. La crisi dei chip ha dimostrato tutta la fragilità di questo sistema: da tre anni a questa parte, quindi, noi di Renault abbiamo cambiato la nostra strategia di acquisti».

Producendo un maggior numero di componenti in casa?
«No: diversamente da alcuni concorrenti, non vogliamo controllare tutto, ma avere una collaborazione più stretta e anticipata con i nostri fornitori, specialmente per quanto riguarda alcuni componenti critici».

Quali?
«Il discrimine è l’importanza in termini di costi e di innovazione. Sui chip, per esempio, abbiamo stretto un’alleanza con Qualcomm e ora domandiamo a tutti i nostri grandi fornitori di integrare questi semiconduttori nei prodotti destinati alle nostre auto. Abbiamo così ripreso il controllo di questa filiera».

In un’auto, però, ci sono decine di migliaia di componenti. È possibile controllarli tutti?
«Circa il 75% dei componenti delle auto elettriche prodotte da Ampère (la società di Renault che fa auto elettriche in Francia, ndr) proviene da un raggio di 300 chilometri. Questo non significa che non ci siano dei rischi perché i nostri fornitori hanno altri fornitori di secondo, terzo livello e, magari, anche oltre. L’importante è sapere chi sono e a quali pericoli sono esposti».

Cioè?
«Le faccio un esempio. Nel 2023 c’è stato un forte terremoto in Turchia. Grazie ai nostri sistemi informativi, in 12 ore abbiamo ricostruito tutti i fornitori che avevano fornitori nell’area e li abbiamo avvertiti, chiedendo loro di verificare che le loro aziende della filiera non avessero avuto problemi e continuassero a lavorare normalmente».

La guerra dei dazi rischia di rovinare questo lavoro costringendovi a ricostruire le filiere lungo le linee doganali?
«Non credo che le filiere dell’auto cambieranno radicalmente, sono troppo complesse e interlacciate: l’Europa è dipendente dalla Cina e dagli Stati Uniti e viceversa».

Anche troppo dipendente dalla Cina?
«Chi dice che non ha neanche un componente cinese nelle sue auto mente. E il “peso cinese” nelle auto è aumentato sicuramente con l’avvento dell’elettrico: quando l’Europa ha deciso di virare su questa tecnologia, la dipendenza dalla Cina era al 100% nelle batterie. Oggi cominciamo ad avere delle gigafactory anche in Europa che però coprono circa il 20% del valore di una batteria, ma non basta».

Perché?
«L’altro 30-35% del valore della batteria sono le materie prime, molte delle quali arrivano soprattutto dalla Cina. Poi c’è tutto il processo di raffinazione dei metalli, di cui la Cina svolge l’80% perché l’Europa ha smesso di raffinare metalli 25 anni fa. Poco a poco, l’Europa deve ricostruire questa filiera».
 
Come? Con i dazi?
«Credo che le barriere doganali non risolvano il problema. La soluzione sta nel principio di reciprocità. Le imprese cinesi possono venire a vendere in Europa, ma devono essere sottoposte alle stesse regole delle case europee. E devono seguire il modello adottato dalle aziende europee arrivate 20 anni fa in Cina: costituire società locali, stringere collaborazioni con gruppi domestici, creare impiego e trasferire tecnologia. E poi bisognare accelerare nell’economia circolare».

Perché?
«Il riciclo risponde a obiettivi economici, perché riduce i costi delle materie prime, e ambientali, perché ne diminuisce l’impatto in termini di emissioni. Ma ha anche una funzione strategica perché ci consente di ridurre, attraverso il riciclo, la dipendenza nell’approvvigionamento».

Crede che questa tendenza alla deglobalizzazione finirà per regionalizzare l’industria dell’auto? Ogni casa dovrà produrre una vettura per la Cina, una per l’Europa, una per gli Stati Uniti e una per il Sudamerica?
«Non c’è una risposta semplice a questa domanda. Penso che ogni mercato tenderà sempre più ad avere le sue regole per la mobilità e le sue abitudini d’uso dell’auto. D’altro lato, l’elettrificazione e la digitalizzazione dell’auto sono tendenze trasversali a tutto il mondo: perché i consumatori di un Paese in via di sviluppo dovrebbero voler guidare vetture più inquinanti o tecnologicamente obsolete? La vera questione è il prezzo delle auto».

Che negli ultimi anni è salito molto: colpa delle crisi in serie e della loro gestione?
«La gestione dei rischi non ha una grande incidenza sui costi. Il prezzo delle auto è aumentato soprattutto a causa dell’elettrificazione e della regolamentazione. Non dobbiamo dimenticare che l’industria dell’auto è diversa dall’industria aerospaziale o della la difesa, dove i clienti sono i governi: noi siamo un’industria di massa e dobbiamo fare prodotti abbordabili per tutti i consumatori». 

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14 luglio 2025

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