
Stavolta m’ammazzo sul serio
di Antonio Amurri è stato scritto quando in Italia si scriveva moltissimo. Era un quarto di secolo che si scriveva tanto — e si scriveva su macchine da scrivere italiane, perlopiù, progettate da designer italiani del calibro di Marcello Nizzoli, Ettore Sottsass e Mario Bellini: le Olivetti che vanno dalla prodigiosa Lettera 22 (1950), alla Lettera 32 (1963), alla Valentine (1969), alla Lettera 35 (1972), alla Lexikon 82 (1974), fino alla prima portatile elettrica, la Olivetti ET 101 (1978). Alla supremazia nella costruzione delle macchine da scrivere si accoppiava una brillantissima «via italiana» nel modo di usarle. La supremazia era dovuta alla incessante azione di ricerca e valorizzazione del talento messa in opera da Adriano Olivetti. (Anzi, poiché bisogna serbare memoria del bene, oltre che del male, lasciatemi raccontare una delle tante storie di cui è ricco quel formidabile periodo della Olivetti: non c’entra con questo libro e dunque se avete proprio fretta potete saltarla, riattaccando dalla fine della parentesi, ma io vi consiglio di non farlo. Conoscerete un genio di cui molto probabilmente non avete mai inteso parlare, di nome Natale Capellaro.
Entrato in Olivetti come apprendista operaio a 14 anni, assegnato alla linea di montaggio della M1, e, sebbene privo di titolo di studio, presto destinato da Adriano Olivetti al famoso Ufficio Progetti e Studi, a metà degli anni Trenta si trovò coinvolto nella progettazione delle macchine da calcolo. Lì si manifestò il suo genio. Accadde che i capireparto si accorsero che Capellaro rubava dei pezzi dalla catena di montaggio: roba di poco valore, tasti, tamburi, viti, perni, meccanismi a molla, ma insomma lo fecero presente ad Adriano Olivetti, il quale disse: «Lasciatelo fare». Dopo qualche mese Olivetti convocò Capellaro nel suo ufficio: «Capellaro, lei da mesi si porta a casa dei pezzi dalla linea di montaggio. Cosa ci fa?» E Capellaro, senza star qui a farla tanto lunga sull’imbarazzo che deve averlo pervaso, gli rispose che stava facendo degli esperimenti perché, insomma, senza offesa, secondo lui l’assemblaggio delle tastiere delle macchine da scrivere al meccanismo delle macchine calcolatrici era uno sbaglio, c’era un enorme spreco di componenti, i meccanismi di trasmissione erano fragili e complicati e secondo lui era possibile compattare quelle calcolatrici risparmiando centinaia di pezzi e dando loro una forma molto più funzionale. Nacque così la Elettrosumma 14, cui seguirono la Multisumma 14 e la Divisumma 14, che nel giro di pochi anni, nell’immediato dopoguerra, sbaragliarono il mercato mondiale e portarono la Olivetti a comprarsi la Underwood e la Remington. Natale Capellaro, signori. Nato povero a Ivrea nel 1902. Progettista di tutte le calcolatrici Olivetti che hanno conquistato il mondo. Diventato ingegnere solo nel 1962, grazie alla laurea honoris causa che gli fu conferita dall’Università di Bari).
Quella che ho chiamato la «via italiana» nell’usare le macchine da scrivere, invece, responsabile dell’assordante ticchettar di tasti negli anni del cosiddetto boom economico, è la comicità. Soprattutto nel cinema e nella televisione, infatti, poco rumore e poca usura hanno prodotto le opere drammatiche (pensiamo alle striminzite sceneggiature dei film di Antonioni, o a quelle mezze disegnate di Fellini), mentre le dattilografe battevano centinaia di copioni per film, varietà televisivi e radiofonici che avevano una finalità sopra le altre: far ridere. Uno sterminato giacimento di gag e di battute estratte ogni giorno come pepite per produrre quella che per molto tempo è stata la vera ricchezza italiana. Era proprio un’industria, e la gente che vi era coinvolta era tanta, e lavorava tutta insieme, nello stesso momento, ogni giorno, per far ridere le persone, e tutto quel che doveva far ridere veniva scritto, tic tac tic tac, a macchina da scrivere con due o tre copie di carta carbone, direttamente da loro o da segretarie con le unghie laccate che passavano intere giornate accanto a registratori e a dittafoni. Era lasciato poco spazio all’improvvisazione.
Si trattava proprio di un popolo, o se vogliamo di una scuola, una «scuola dello sguardo» che ha osservato e reso molto divertente l’Italia del secolo scorso — anche quando divertente non lo era affatto. Un po’ di name dropping
per farsi un’idea di chi era questa gente e di cosa stiamo parlando, tra radio, televisione, cinema ed editoria: Scarnicci e Tarabusi, Bernardino Zapponi, Dino Verde, Alighiero Noschese, Marcello Casco, Marcello Marchesi, Age, Furio Scarpelli, Sergio Amidei, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Rodolfo Sonego, Steno, Nanni Loy, Mario Monicelli, Dino Risi, Luciano Salce, Ettore Scola, Giovanni Guareschi, Ennio Flaiano, Achille Campanile, Gian Carlo Fusco, Umberto Simonetta, Paolo Villaggio. Ma siccome nessuno, tra questi, avrebbe mai accettato una definizione così pomposa come «scuola», è meglio parlare di «doposcuola», ecco, sì, di un après-école du régard — e pensare a questo manipolo di maschi (tutti maschi) che, anziché fare i compiti, stanno lì a prendersi in giro tra loro e a infilzare tutto ciò che li circonda con battute ferocissime. Si tende a definirli autori umoristici, satirici, ironici, ma sono tutte traduzioni incomplete e troppo tiepide di un aggettivo che nella tradizione inglese sfolgora invece senza alcuna timidezza: «comic», per l’appunto. Da Sterne a Joyce, da Malcolm Lowry a Harold Pinter, da Beckett a Flann O’Brien, da John Fante a Flannery O’Connor, fino ad Alan Bennett, Neil Simon, Jerome K. Jerome, P.G. Wodehouse e Woody Allen, l’aggettivo «comico» si è nutrito di un’infinità di giganti inglesi e americani, pienamente rappresentandoli in una delle vene più fertili e solenni e alte della tradizione anglosassone. In Italia, invece, è stato usato a lungo come diminutio per separare quelli che facevano ridere dagli Autori con l’A maiuscola — cosa che appunto la tradizione anglosassone non si è mai sognata di fare. Il risultato è stato questo popolo di autori che orgogliosamente hanno accettato l’apartheid senza mai pretendere la promozione nella categoria superiore, accettando la fatale sottovalutazione che ne conseguiva, soprattutto agli occhi della critica, per poi andare a cogliere tutta insieme da vecchi (i più fortunati) o da morti, la gloria che meritavano. E mai nessuno che li abbia conosciuti, che abbia potuto dialogare con loro o addirittura lavorarci insieme, ha mai dubitato che la meritassero. Gli sceneggiatori non hanno mai voluto fare i registi o gli scrittori, gli autori definiti per l’appunto umoristici mai hanno preteso di esprimersi senza far ridere, ma bastava parlarci una volta e tutti loro mostravano una profonda formazione classica e una consapevolezza creativa degna dei loro colleghi «seri». Scarpelli e Scola, che insieme ad Age hanno scritto la sceneggiatura di Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968), hanno sempre detto che l’idea del film proviene da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma che l’idea di abbandonare la commedia, anche dinanzi a temi come quelli (il razzismo, la bocciatura dello stile di vita occidentale, la scoperta della natura selvaggia dell’uomo), non li ha mai nemmeno sfiorati. Per quella gente, che batteva sui tasti delle macchine da scrivere a metà del secolo scorso, mettere in ridicolo era un passo irrinunciabile.
Di questa gente faceva parte Antonio Amurri. La sua scrittura si allenava alla leggerezza, oltre che con la comicità, anche con l’attività di paroliere per le canzoni (ne ha firmate decine di grande successo, e molte ne ha scritte senza figurare nei crediti), una specie di polizza assicurativa contro la verbosità e la mancanza di ritmo — e in questo libro, giustamente considerato il suo migliore, ne dà dimostrazione. Vi sono delle strofe, dei refrain, degli incisi, che guizzano, ritornano e scandiscono il racconto, conferendogli una trazione degna appunto di una composizione musicale, e ognuno dei 29 brevi capitoli (più l’epilogo) è focalizzato su una situazione comica principale attraversata da altre linee narrative — chiamiamole così — orizzontali, comprensive di battute fulminanti e spunti di satira sociale. È in linea, dunque, al cento per cento con la tradizione di cui sopra — il libro è stato scritto per farci ridere. E però…
E però, in questo registro dissacrante viene inquadrata e spietatamente denunciata la dabbenaggine della nuova borghesia italiana che tutto sottovaluta per egoismo, ignoranza, superficialità — a cominciare dal suicidio, che in questo libro lampeggia fin dal titolo con la sua luce da ambulanza. Perfettamente in linea con le opere comiche che nel secolo scorso hanno accompagnato l’Italia nel suo viaggio dalla miseria alla ricchezza, Stavolta m’ammazzo sul serio è diventato un classico della nuova disfunzionalità familiare italiana, così come Fantozzi lo è della nuova crudeltà aziendale. Molto più allegra e quasi spensierata quella di Amurri, molto più dolente e politica quella di Villaggio, al centro della scena di entrambi i libri campeggia la disperazione: una disperazione molto diversa da quella raccontata dal neorealismo — comica, appunto, caricaturale, quasi fumettistica, e proprio per questo forse ancora più tragica.
Si ride, sì, ed è proprio il ridere che permette di incassare i colpi che vengono sferrati sulla disperazione sporca che in quegli anni stava prendendo il posto di quella innocente di Umberto D. Alla fi ne ci ritroviamo messi in ridicolo anche noi, figli di quella evoluzione, tutti egualmente contaminati dalla ridicola disperazione del ragionier Ugo Fantozzi o del benestante Antonello Rossi. Ridiamo di noi stessi, grazie a loro, e senza di loro non l’avremmo fatto mai.
Viene in mente una gag di un altro campione di comicità, Francesco Nuti, quando ancora faceva le serate nelle discoteche, prima del grande successo, alla fine degli anni Settanta: la disperazione italiana stava evolvendosi nuovamente, soprattutto in quei locali, stava entrando nel suo periodo edonistico, e Francesco vi transitava come uno spirito leggero e senza tempo, con la sua malinconia da clown bianco e la sua vis comica da Stan Laurel. Uno dei suoi cavalli di battaglia su quei palchi era mimare una minzione lunghissima, che nel suo prolungarsi indefinitamente lo trasportava dal sollievo alla soddisfazione, poi alla perplessità, poi alla preoccupazione e infine al panico. D’un tratto Francesco interrompeva la gag, si rivolgeva a uno dei ragazzotti coi capelli impomatati che si stavano sbellicando in prima fi la davanti a lui e gli diceva: «Cazzo ridi, non lo vedi che ti sto pisciando addosso da cinque minuti?».
Pionieri. Il comune senso del ridicolo
Aprile 1952, due giovanissimi Antonio Amurri (a destra) e Gianni Isidori (1931-2019). Amurri, oltre a essere un apprezzato romanziere ha scritto per la tv, la radio, il teatro; oltre ai testi di circa 200 canzoni. Isidori è considerato tra i «rifondatori» dell’umorismo italiano del dopoguerra. Insieme, Amurri e Isidori, furono collaboratori de «Il Travaso delle Idee», uno dei più popolari giornali umoristici italiani. Pubblicato dal 1900 al 1966, e poi dal 1986 al 1988.
25 aprile 2025 (modifica il 25 aprile 2025 | 14:10)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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