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Pezzoli: «Parkinson malattia negletta, il sogno è aprire un ospedale super specializzato»

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Per la prima volta in Italia si svolge la Settimana del Parkinson, dal 24 al 29 novembre: un’iniziativa promossa da Fondazione Pezzoli per la malattia di Parkinson, dedicata all’informazione, alla prevenzione e al sostegno di pazienti e famiglie. Ne parliamo con il professor Gianni Pezzoli, presidente della Fondazione e tra gli autori del forum tematico di Corriere.it.

Professore, perché si parla così poco e in termini generici o sbagliati di Parkinson?
«Il primo problema è la percezione comune, tutti sanno cosa è la Sla e pochi conoscono il Parkinson, che nel mondo occidentale resta una malattia negletta, identificata solamente per i suoi sintomi più riconoscibili, in particolare il tremore a riposo, che non è peraltro sempre presente. È invece dalla conoscenza dei sintomi che si può capirne l’impatto, anche sociale».

Quali sono?
«I sintomi sono sei. I tre principali sono il tremore di riposo, la bradicinesia (lentezza ed esauribilità precoce del movimento), l’ipertono muscolare (rigidità alla movimentazione passiva). Poi ci sono tre sintomi motori tardivi: facilità alle cadute, postura curva e andatura impacciata. La conoscenza del grande pubblico va solamente verso il Parkinson tremorigeno: tutti ricordano il tremore di Papa Wojtyla».

Qual è il decorso?
«I dati in nostro possesso (dal 1980 al 2025) confermano un peggioramento drammatico a partire dalla seconda decade: almeno il 60% dei soggetti sopra gli 80 anni ha un deterioramento cognitivo, che spesso si sposa con l’Alzheimer. Sommando quindi ai sei sintomi un difetto di memoria a breve e lungo termine, quindi anche l’interessamento corticale, il paziente va incontro a complicanze che lo portano all’allettamento».

L’impatto sociale di questa patologia?
«In Italia ci sono circa 400mila soggetti affetti, che significa i pazienti e le loro famiglie. Nella nostra casistica il 5% della popolazione ha avuto un esordio sotto i 42 anni, quindi stiamo parlando di 20mila soggetti giovani, alcuni con i primi sintomi a 9 anni. Dunque si tratta di una malattia più importante della sclerosi multipla, che colpisce quasi esclusivamente giovani, ma in numero inferiore al Parkinson giovanile. L’esordio normale si ha invece a 60 anni, i primi cinque sono di “luna di miele” con i farmaci, i cinque successivi sono più impegnativi; il paziente deve capire sin dall’inizio che non esiste solo una terapia farmacologica, ma anche una fisioterapia, una dietoterapia, una psicoterapia. Dai dieci ai quindici anni la malattia diventa complessa, il paziente tende a non rispondere più in modo stabile alle cure, comincia ad avere fenomeni di eccesso, quindi movimenti involontari oppure dei blocchi, per cui alla fine della dose resta sulla sedia incapace di alzarsi. Nel quarto lustro ha bisogno di terapie complesse o neurochirurgia, che controllano meglio i sintomi; ma la malattia va avanti, il paziente deve essere assistito, ha fenomeni motori oscillanti in eccesso o difetto, perché la finestra terapeutica di risposta al farmaco è sempre più stretta: se la dose assunta è troppa, provoca movimenti involontari o fenomeni allucinatori, confusione, delirio».

L’approccio terapeutico è stato rivoluzionato dalla scoperta della levodopa?
«Sì. Tutto dipende dal livello di dopamina e dal suo tempo di dimezzamento, che è relativamente breve (un’ora e 40 minuti). Dopo tre è diventata la metà della metà, così la levodopa è un farmaco che deve essere somministrato tre, quattro, cinque volte al giorno, frazionandolo, cercando la dose il più possibile stabile nel corso della giornata. La levodopa è il farmaco principale, viene assorbita a livello enterico (nel digiuno) in un tratto di una sessantina di centimetri, entra nel sangue e nel cervello e lì viene trasformata dalle cellule, non solo dai neuroni, da levodopa a dopamina. Ma andando avanti con la malattia, le fibre saranno sempre di meno e verrà trasformata anche da cellule aspecifiche, per cui il paziente non avrà più una mobilità normale, ma un eccesso e poi un difetto».

Come sono nati l’Associazione italiana parkinsoniani, AIP, la Fondazione e il Centro Parkinson ospitato dall’ASST Gaetano Pini-CTO di Milano?
«Creando una rete fra medici, ricercatori, terapisti, pazienti, famiglie ed Enti, fra noi e il Sistema sanitario nazionale, le Università. Da noi vengono quelli che sono già stati da cinque o sei neurologi, perché la diagnosi non è mai semplice. Uno dei nostri obiettivi è stato quello di costruire un Centro Parkinson, che negli Stati Uniti esisteva già quando io ho fatto il post doc alla Columbia University, dal 1986 al 1988. Nei decenni sono cresciute in maniera lineare tutte le nostre entità, abbiamo fatto convenzioni, prima tra tutte fra Fondazione e l’ASST Pini-CTO. L’AIP non può fare ricerca scientifica in Italia, ha uno scopo informativo e culturale. La Fondazione fa solo ricerca e la finanzia. Siamo passati da una neurologia generale a una neurologia multispecialistica, con una serie di persone che intervengono sul paziente. La presa in carico che facciamo da trent’anni funziona così: normalmente il paziente si reca dal neurologo che gli prescrive dei farmaci, ma da noi c’è anche un’assistenza specialistica continua. Un telefono che risponde dal lunedì al venerdì e un medico che ti richiama in giornata, un SOS Parkinson per urgenze il sabato e la domenica e nei giorni festivi, da 34 anni, con 1.200 chiamate all’anno, delle quali almeno cinque salvavita».

Come si è avvicinato a questa patologia?
«La mia prima formazione è farmacologica, ma subito mi sono interessato alla neurologia. L’epilessia era già coperta, tutti studiavano patologie muscolari incurabili, io che avevo competenze neurofarmacologiche ho cominciato a occuparmi di Parkinson alla fine degli anni ’70. Nel 1982 abbiamo capito che la farmacoterapia non era sufficiente e abbiamo cominciato a guardarci in giro per capire cosa si faceva nel mondo. C’erano alcuni pazienti che riportavano libretti di fisioterapia dagli Stati Uniti. Ho scritto una lettera all’American Parkinson disease association, entrando in contatto con Paul Maestroni, un italiano che era andato a New York nel 1951 con una borsa di studio. Mi risponde l’anno dopo, viene a tenere una conferenza al Besta di Milano, parlando dell’associazionismo dei pazienti, che in Italia non esisteva. Mi dà subito la possibilità di tradurre una loro guida per i pazienti e a metà degli anni ’80 abbiamo cominciato a lavorare, con l’aiuto di persone che erano state all’estero, a un’associazione per i pazienti. Nel 1990 nasce l’Associazione italiana parkinsoniani grazie a un piccolo gruppo di industriali in pensione, malati o con parenti malati, che cercano di coinvolgere altri imprenditori e chiedono anche all’ingegner Grigioni, grandissimo costruttore milanese, di contribuire alla nascita, nel 1996, della Fondazione Grigioni per il morbo di Parkinson. Da quel momento il nostro progetto si è autofinanziato, dal Policlinico ci siamo trasferiti al CTO alla Bicocca, storico ospedale ortopedico traumatologico, pensato nell’era industriale, che si stava svuotando. Abbiamo riempito e poi ristrutturando gli spazi liberi e siamo cresciuti enormemente. Dallo scorso anno la Fondazione ha preso il mio nome, per volontà dei consiglieri che hanno voluto premiare il mio impegno gratuito di tutti questi anni».

Poi c’è il ruolo fondamentale della ricerca.
«Il nostro obiettivo più importante è quello di poter identificare il paziente prima che sviluppi la malattia. Ci aiutano le cartelle cliniche di 40mila soggetti, un database unico. Ci può essere una predisposizione genetica che aumenta il rischio di ammalarsi, ma solo per il 20%. Esiste invece una parentela fra Parkinson e diabete, una prima via comune, e in una ricerca pubblicata nel 2023 abbiamo studiato alcuni farmaci, come i sostituti del glucagone, che vengono prescritti per le due patologie. Cerchiamo di arrivare a un test di screening che ci dia una sensibilità e una specificità molto elevata. Ci stiamo lavorando da anni, ma non ci siamo ancora riusciti. Perché il Parkinson può avere un’aspettativa di vita di dieci anni ed è peggio dell’Alzheimer, ti blocca da un punto di vista motorio. In cinque anni invecchi di venti. Fortunatamente abbiamo una moltitudine di farmaci, ma sono farmaci sintomatici, come nel diabete l’insulina, non ti possono guarire».

La rete di strutture e infrastrutture fa pensare a un futuro ospedale solo per il Parkinson.
«Ci siamo dotati nei decenni di strumenti innovativi. La cartella clinica informatizzata è consultabile anche dal cellulare. Una banca dei cervelli, autorizzata dal paziente prima della morte, partita in collaborazione con Niguarda, adesso gestita con l’Istituto di Medicina legale. La storia del paziente dall’esordio fino allo studio del suo cervello. Poi c’è la Banca genetica, 10mila campioni conservati all’Humanitas. Con la Fondazione da vent’anni andiamo in Africa, Ghana, Zambia e Zimbawe, sviluppando una ricerca che utilizza la Mucuna, un fagiolo infestante, passato in padella e macinato, assunto in polvere, che funziona in maniera simile alla levodopa. L’abbiamo scoperto in Australia, a un convegno, grazie a una collega boliviana che ci ha spiegato come veniva usato, preparato e consumato con le foglie di coca. Ho seguito per anni il cardinal Martini, è lui che mi ha consigliato di andare nell’ospedale sostenuto della curia milanese a Chirundu, in Zambia, sullo Zambesi. Adesso sono cinque i Centri finanziati in Africa. La mia battaglia in corso a Milano è di creare un ospedale, il primo in Europa, per la malattia di Parkinson. A livello di costi della sanità sarebbe un risparmio di esami, spesso inutili e costosissimi, e di diagnosi sbagliate. Occuparsi di malattie poco conosciute anche nei piccoli ospedali è un danno per il sistema sanitario e il paziente. Se devi fare una scintigrafia cerebrale, che costa mille euro, è meglio rivolgersi a chi ne fa 1.500, non a chi ne fa 15. Bisognerebbe essere visti da tutti gli specialisti della malattia, il neurologo, il neuropsicologo, il nutrizionista, il fisioterapista. Con a portata di mano una cartella clinica elettronica, come la nostra, che contiene tutti gli esami, i filmati del paziente, lo storico. L’Associazione, anch’essa presente, segue i pazienti e li informa di tutto. L’ospedale dovrebbe avere al suo interno, oltre al reparto degenza, anche la riabilitazione, che adesso facciamo all’esterno».

A che punto è il sogno?
«Abbiamo convenzioni con numerosi enti pubblici e privati, ci autofinanziamo con la Fondazione, aspettiamo le opportunità per avere nuovi spazi. Vogliamo avere la possibilità di seguire il paziente con l’Associazione e la Fondazione, e siamo diventati da tempo un punto di riferimento».

Come si può finanziare la Fondazione?
«Compilando la dichiarazione dei redditi, scegliendo Fondazione Pezzoli nel riquadro destinato alla scelta del 5 per mille, indicando il codice fiscale 97128900152. Oltre alla destinazione del 5×1000 e alla possibilità di donare online, esistono tanti altri modi per sostenere la Fondazione, per esempio il lascito testamentario».

12 novembre 2025

12 novembre 2025

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