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Perché non ricordiamo un nome familiare o un appuntamento (è perché invece non dimentichiamo come si va in bici)

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Mentre si diffonde l’intelligenza artificiale, dotata di un’infinita capacità di ricordare, avanzano le scoperte sui meccanismi neurobiologici che consentono al cervello umano di apprendere. E anche quelli che gli consentono di ricordare e, per fortuna, di dimenticare selettivamente, dal momento che per il cervello sarebbe impossibile, inutile e addirittura sconveniente, ricordare tutte le informazioni che costantemente gli arrivano. 

Engrammi

«A livello dei neuroni – le cellule fondamentali di cui è composto il sistema nervoso – si ritiene che l’apprendimento sia sostenuto dal rafforzamento delle connessioni tra neuroni che si trovano in stato di attivazione» dicono Mitchell de Snoo e Paul Frankland, neuroscienziati canadesi che hanno pubblicato una revisione sui meccanismi della dimenticanza sulla rivista Current Opinion in Neurobiology. «Questo rafforzamento porta alla costituzione di un insieme di neuroni, definito engramma, che corrisponde a uno specifico ricordo». 

85 miliardi di neuroni

Per capire la complessità della questione bisogna sapere che nel cervello ci sono oltre 85 miliardi di neuroni. Distribuiti tra corteccia cerebrale, cervelletto e nuclei cerebrali situati all’interno, sono dotati di prolungamenti del corpo cellulare, chiamati dendriti e assoni, che costituiscono una rete di circa tre chilometri di «fili», lungo i quali ci sono almeno 100 trilioni di sinapsi, punti di contatto che garantiscono il funzionamento della rete. Un intricato sistema nel quale si sviluppano i processi di apprendimento e dimenticanza. Capire perché non si riesce a fissare un’idea o non si riesce a ricordarla è anche il substrato per la comprensione di patologie come la malattia di Alzheimer.

Una volta che si è formato un engramma connesso a uno specifico ricordo o informazione, in teoria non dovrebbero esserci problemi a recuperarlo, sia che venga richiamato da uno stimolo (incontro per strada un amico che non vedevo da tempo e lo riconosco) sia che lo si vada a cercare spontaneamente (che macchina ha mio cognato)? Eppure non sempre l’operazione riesce, proprio perché nel cervello avvengono fenomeni di dimenticanza.

Che cos’è la dimenticanza

«La dimenticanza si può definire come il fallimento del processo di richiamo alla memoria di un ricordo che una volta era accessibile» dicono i due neuroscienziati canadesi, che lavorano al Program in Neurosciences and Mental Health dell’Hospital for Sick Children a Toronto, in Canada.

«Questo accade quando la presentazione di uno stimolo che precedentemente aveva portato con successo al recupero di un ricordo, ora non riesce più a funzionare. In genere, questo tipo di dimenticanza viene percepito come un disturbo. In persone in stato di salute, la dimenticanza è un fastidio, come accade quando si dimentica un appuntamento o non si riesce a dare un nome a un viso familiare, ma non interferisce significativamente con il funzionamento corrente. Al contrario, in alcune condizioni patologiche, come la malattia di Alzheimer, l’elevato livello di dimenticanze può impattare sulla qualità di vita delle persone affette, così come dei loro caregiver».

Il punto di vista neurobiologico

Dal punto di vista neurobiologico, il fenomeno della dimenticanza viene attribuito dai ricercatori a due diversi tipi di processi. Si può non ricordare un’informazione perché l’engramma, il gruppo di neuroni attivati specifico per quell’informazione si è dissolto e quindi non esiste più, oppure non si ricorda l’informazione perché, anche se quell’engramma ancora esiste, non funziona il sistema che consente di recuperarlo.

Nel primo caso è come se in un magazzino si andasse a cercare un oggetto che non è più presente, nell’altro invece in quel magazzino l’oggetto c’è, però quando lo si va a cercare non si riesce a trovarlo. Oggi i ricercatori propendono per quest’ultima ipotesi, grazie anche a studi sperimentali sui topi attraverso tecniche di opto-tagging, un sistema che permette di «accendere» con stimoli luminosi specifici gruppi di neuroni e quindi specifici engrammi, anche quando non sono più direttamente accessibili alla mente.

In altre parole, si può riattivare artificialmente un ricordo anche quando la mente non sarebbe più in grado di riattivarlo da solo, e questo dimostra che, seppure non più raggiungibile, il ricordo è ancora sepolto lì dentro. È come se in quel magazzino in cui l’oggetto cercato non si trova, lo si potesse accendere a distanza come una lampadina, dimostrando così la sua presenza.

A volte «si sa» che il ricordo esiste ma non si riesce a raggiungerlo

La questione è resa ancora più interessante da un fenomeno usuale ma, a pensarci bene, alquanto strano. A volte, «si sa» che quel certo ricordo è presente nella mente, anche se non lo si riesce a raggiungere. Se ne percepisce la presenza, ma non si riesce a riportarlo alla coscienza.
«Questa dinamica, che si potrebbe definire di dimenticanza sul momento, è caratterizzata proprio dall’impossibilità di recuperare un ricordo che di solito si avrebbe un’alta probabilità di riuscire a ripescare» dicono ancora Snoo e Frankland. 

Variabili «interne» ed «esterne»

«A livello cognitivo, la possibilità di recuperare specifici ricordi è condizionata da molti fattori, incluse alcune variabili “interne”, che possono essere fisiologiche, emotive o influenzate dall’utilizzo di alcuni tipi di farmaci, oppure da variabili “esterne”, come contesti ambientali e sociali. Si pensa che queste variabili, interne ed esterne, possano modulare la possibilità di recupero dei ricordi, spostandoli da uno stato di accessibilità a uno di inaccessibilità e viceversa, senza che l’engramma di quel ricordo venga alterato». 

Interessante notare, per quanto riguarda l’influenza di aspetti sociali e ambientali, che sperimentazioni sui topi hanno dimostrato come l’isolamento sociale e lo stress siano importanti fattori di interferenza con le naturali capacità del cervello di recuperare ricordi e riattivarli. Il fenomeno potrebbe contribuire a spiegare perché le funzioni mnemoniche sono spesso deteriorate in persone che vivono in situazioni di solitudine e scarsa connettività sociale.

Che fine fa il ricordo delle minuzie quotidiane

Ci sarebbe poi da chiedersi anche se le tante informazioni correnti, immagini, incontri, sensazioni, che si affastellano durante una qualsiasi giornata, e durante tutto il susseguirsi delle giornate, scivolino rapidamente via o lascino invece una traccia mnemonica potenzialmente recuperabile.

«Persone in normali condizioni psichiche di solito non hanno problemi a rammentare che cosa è avvenuto pochi minuti o qualche ora prima, per quanto banale fosse» sottolineano i due ricercatori canadesi. «Tuttavia, il ricordo delle minuzie della vita quotidiana sembra dissolversi rapidamente. Ad esempio, può essere facile ricordare i dettagli del percorso verso il posto di lavoro effettuato quella stessa mattina, ma è improbabile ricordare con eguale sicurezza i dettagli di quel percorso effettuato un mese fa, a meno che in quel tragitto non sia accaduto qualche fatto inusuale e specifico». Eppure, sempre da sperimentazioni sui topi con opto-tagging si sa che questi ricordi, che si potrebbero definire di scarsa significatività, risultano recuperabili anche a distanza di tempo, sebbene non siano mai entrati nella memoria a lungo termine.

Dove vanno a finire i ricordi ben stabilizzati nella memoria

Ma anche i ricordi ben stabilizzati nella memoria a lungo termine possono cadere nel dimenticatoio. Gli engrammi sono costituiti, come si è detto, da un insieme di neuroni funzionalmente collegati, e se avvengono dei cambiamenti in questi neuroni o nelle sinapsi che li collegano, quel ricordo può diventare difficile da recuperare

Sempre dalle sperimentazioni, si sa che nel giro dentato dell’ippocampo, piccola struttura cerebrale di cruciale importanza per i processi di memoria, possono formarsi nuovi neuroni, in seguito a un fenomeno conosciuto come neurogenesi. Questi neuroni possono andare a modificare l’engramma originale di un ricordo, che quindi non può più essere riconosciuto come sede di quello specifico ricordo. A riprova di ciò, interventi sperimentali finalizzati a incrementare la neurogenesi a livello dell’ippocampo aumentano i fenomeni di dimenticanza. Interventi che invece la rallentano diminuiscono i fenomeni di dimenticanza.

Perché è importante studiare questi processi

Scoprire questi processi neurobiologici collegati al ricordo e alla dimenticanza non è importante solo per l’avanzamento delle conoscenze, ma rappresenta il terreno di partenza per lo sviluppo di possibili trattamenti per alcuni disturbi psichici caratterizzati da un eccesso o una carenza della memoria. 

Ad esempio, nel disturbo da stress post-traumatico, che colpisce persone rimaste esposte a episodi gravemente traumatici, come aggressioni, inondazioni, terremoti, un sintomo frequente è il continuo ripresentarsi alla memoria di sensazioni, immagini, rumori, connessi all’evento traumatico, che in qualche modo la persona non riesce a «dimenticare». Poter interferire con questo eccesso di memoria aiuterebbe a prendere le distanze dall’evento traumatico e a ridurre i livelli di ansia. Al contrario, in forme di demenza nelle quali i ricordi non si fissano e tendono a dissolversi, la conoscenza dei meccanismi di base della dimenticanza potrebbe aiutare a trovare terapie in grado di rallentare o fermare il processo patologico.

I diversi tipi di memoria: a breve termine e di lavoro

Ci sono diversi tipi di memoria con caratteristiche differenti. Ad esempio, la memoria a breve termine trattiene temporaneamente un numero limitato di informazioni, circa 6 o 7 elementi, una breve lista della spesa o un numero telefonico. Serve anche per la comprensione perché, se dimenticassimo subito quello che abbiamo appena letto o ascoltato non capiremmo neppure una frase intera. Di questo tipo di memoria fa parte anche la cosiddetta memoria di lavoro, un piccolo bagaglio di informazioni necessario per elaborare idee od organizzare un pensiero, come si fa quando bisogna scrivere un testo o effettuare un’operazione un po’ complessa.

Memoria a lungo termine

C’è anche una memoria a lungo termine, teoricamente illimitata. Deriva almeno in parte dalla ricodificazione di una parte della memoria a breve termine, che viene mantenuta per un tempo lungo, fino a che parte dei ricordi che la compongono non si affievoliscono, soprattutto per effetto dell’arrivo di nuove informazioni. Infatti, anche se non esiste un problema di «spazio di magazzino» l’arrivo di nuove informazioni può rendere meno facile il recupero di quelle precedenti che pure erano stabilizzate.

Questa memoria a lungo termine in realtà è costituita da vari tipi di memorie: la memoria episodica, che racchiude eventi ed episodi collocabili nel tempo e nello spazio; la memoria semantica, che racchiude la conoscenza del mondo in generale, come uso degli oggetti, regole della società. Quest’ultima si basa sul linguaggio, quindi è traducibile in parole che riportano a fatti e idee.

Memoria autobiografica

La memoria autobiografica corrisponde in parte a quella episodica, ma in più ha anche una componente semantica costituita ad esempio dalla data di nascita e dal cognome. È una memoria precoce, infatti verso la metà del primo anno di vita il bambino è già in grado di individuare oggetti e suoni già percepiti in precedenza. La memoria autobiografica gioca anche un ruolo nella costruzione dell’identità personale. Nella mente esiste un filo rosso che lega il passato al presente. Gli esseri umani sono probabilmente gli unici ad avere questo filo di continuità, e possono in teoria anche «viaggiare nel tempo» con la mente, lungo questo filo rosso che parte dall’infanzia e che non si interrompe mai.

Memoria implicita o non dichiarativa

Esiste poi una memoria implicita o non dichiarativa, come la memoria procedurale, una delle prime a comparire nello sviluppo, connessa alle azioni, come sapersi allacciare le scarpe o saper andare in bicicletta. Ha un’ottima tenuta e difficilmente si disgrega con gli anni. È proprio vero che saper andare in bicicletta non si dimentica.

Memoria implicita o non dichiarativa

Esiste poi una memoria implicita o non dichiarativa, come la memoria procedurale, una delle prime a comparire nello sviluppo, connessa alle azioni, come sapersi allacciare le scarpe o saper andare in bicicletta. Ha un’ottima tenuta e difficilmente si disgrega con gli anni. È proprio vero che saper andare in bicicletta non si dimentica.

Un modello per orientarsi nel futuro

Il cervello è talmente complesso che deve essere bravo tanto a imparare quanto a dimenticare in maniera selettiva. Deve quindi continuamente tenere in primo piano ciò che serve in quel momento o in quella fase della vita, lasciando sullo sfondo ciò che non serve per «navigare» nel mondo attuale, per immaginare il futuro immediato nel quale destreggiarsi. 

Da questo punto di vista, i ricordi potrebbero essere compresi come una sorta di modello di futuro, ossia devono aiutare a capire se eventi passati possano aiutare a orientarsi nei possibili eventi futuri. Così, una volta che un ricordo non serve più per la predizione di come potrebbe essere il futuro immediato, diventa più conveniente dimenticarlo. Dato che sono tantissimi e di vario genere gli stimoli, i sistemi neurali devono essere più capaci di dimenticare selettivamente che di ricordare. Tanto che la dimenticanza attiva è considerata uno strumento fondamentale per la capacità decisionale e, in definitiva, per l’intera salute mentale.

I contro-memoriali per riflettere su traumi e perdite

C’è una forma di memoria collettiva, rappresentata dai monumenti celebrativi che tendono a esaltare eroi, battaglie, vittorie e resistenze popolari. Ne sono esempi gli archi di trionfo, le statue e i palazzi pubblici, che poi possono diventare talora simboli odiati, e talvolta abbattuti. Negli ultimi decenni si è sviluppata pure una diversa forma di celebrazione della memoria collettiva, rappresentata dai cosiddetti contro-memoriali, costruzioni che non mirano a glorificare, ma a ricordare e a suscitare riflessioni su traumi e perdite. Ne è un esempio il memoriale dell’11 settembre a New York, che non si sviluppa verso l’alto, come fanno i monumenti celebrativi, ma tende piuttosto verso un design astratto. Sul vissuto indotto da queste due diverse forme di ricordo collettivo è stata effettuata una ricerca che ha esaminato oltre 150 mila commenti lasciati dai visitatori, pubblicata sul British Journal of Social Psychology.

5 aprile 2025

5 aprile 2025

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