
Resta tutta in salita la strada della pace in Medio Oriente. Israele e Hamas non erano presenti al summit ieri in Egitto. E vanno ancora chiariti i dettagli al momento assolutamente generici dei prossimi passi mirati a costruire il futuro dei territori occupati oltre a un’eventuale formula di accordo per la coesistenza tra Israele e i palestinesi, sommata all’eventualità di una pacificazione con l’Iran perorata dallo stesso Trump alla Knesset.
Non è inoltre affatto chiaro come potrà essere riformata l’Autorità palestinese costantemente snobbata dal governo di Benjamin Netanyahu già prima del 7 ottobre 2023, senza dimenticare la scelta di lasciare che Hamas potesse imperare a Gaza proprio con l’obiettivo di indebolire l’autorità di Ramallah, e poi apertamente osteggiata.
In poche parole, la fase due del programma di Trump rischia di impantanarsi subito dopo il suo inizio avviato già ieri sera. Viene automatico ricordare che le prospettive di pace oggi appaiono meno favorevoli di quelle che si presentarono al tempo degli accordi di Oslo 32 anni fa. Con una differenza importante: oggi Trump è l’unico leader in grado di condizionare Israele e costringerlo a costruire uno Stato palestinese. Gran parte del prossimo futuro sarà dunque dettato dalla determinazione di Trump di fare pressione di Netanyahu, anche a costo di arrivare allo scontro diretto.
Per capire le difficoltà odierne è dunque utile ricordare quelle che portarono al flop di Oslo. Terrorismo di Hamas, violenze dei coloni ebrei, l’assassinio di Ytzhak Rabin, crescita degli insediamenti ebraici in quelle stesse terre che avrebbero dovuto essere parte centrale dello Stato palestinese, corruzione e nepotismo nel governo creato da Yasser Arafat e poi continuato da Mahmoud Abbas: come si può subito vedere, esse furono numerose e imputabili in gradi e modi diversi ai due campi opposti.
Il dibattito resta aperto tra storici e commentatori su chi abbia le responsabilità più forti. Quei nodi non furono risolti e oggi appaiono più penalizzanti di prima a sottolineare la necessità di affinare e chiarire nei dettagli il piano di Trump. A tutti gli effetti, i suoi 20 punti appaiono molto più fragili e incerti del progetto di pace di allora.
Fulcro di quelle intese era la volontà di trovare un compromesso sulla base del principio della «pace in cambio della terra», per cui Israele accettava di ritirarsi da gran parte delle regioni occupate nella guerra del 1967 (i confini erano oggetti di controversia, specie per Gerusalemme est) e i palestinesi creavano un loro regime di autogoverno, che alla lunga (i termini avrebbero dovuto essere definiti più tardi) sarebbe diventato uno Stato indipendente. Ma i problemi furono subito gravissimi.
Le colonie non smantellate
Arafat negoziava da una posizione di estrema debolezza. L’Intifada, la rivolta palestinese scoppiata nel dicembre 1987 nei territori occupati, l’aveva completamente spiazzato. Inoltre, la sua scelta di sostenere l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein lo aveva isolato nel mondo arabo e privato degli aiuti finanziari. La sua fretta di accettare Oslo era motivata dalla necessità di tornare ad essere il massimo rappresentante dell’universo palestinese. Fu questo il motivo principale per cui non pose come condizione fondamentale il blocco delle colonie e ancora meno il loro smantellamento.
La destra israeliana, pur osteggiata dal governo del premier laburista Ytzhak Rabin, reagì intensificando la presenza ebraica, specie in Cisgiordania. Tra il 1993 e il 2000 il numero dei coloni, esclusa Gerusalemme est che pure è parte delle zone occupate, crebbe da 115.700 e circa 220.000, con uno sviluppo molto aggressivo dei movimenti del radicalismo nazional-religioso che li sosteneva.
Il massacro di Hebron
Momento di svolta fu l’uccisione di 29 palestinesi e il ferimento di altri 125 all’interno della moschea-sinagoga nella Grotta dei Patriarchi nel cuore di Hebron da parte del colono Baruch Goldstein. Era il 25 febbraio 1994, Goldtstein era medico nella colonia estremista di Kryat Arba, prese il suo mitra e sparò a freddo contro i musulmani inginocchiati in preghiera, ne seguì lo scontro con i sopravvissuti che lo linciarono a morte.
Le conseguenze furono tragiche. Da allora Hamas lanciò con successo la lunga serie di attentati kamikaze che avrebbero insanguinato le strade di Israele per diversi anni. Va detto che nel 1993 vi erano già stati due Kamikaze, ma dall’aprile 1994, dopo i 40 giorni del lutto musulmano per il massacro di Hebron, il loro numero vide una progressione impressionante con centinaia di morti: nel 1994 gli attentati suicidi furono 5, nel 2001 ben 34 e i numeri sarebbero stati tragici sino al 2005.
Il senso di insicurezza tra gli israeliani condusse rapidamente al diffondersi dello scetticismo nei confronti dell’idea del compromesso territoriale. Gli opposti estremismi si alimentavano a vicenda. Arafat perdeva punti di fronte ad Hamas, mentre la sinistra pacifista israeliana diventava sempre più debole.
L’assassinio di Rabin
Ma il colpo più grave volutamente inferto agli accordi di Oslo fu l’assassionio di Ytzhak Rabin la sera del 4 novembre 1995 per mano di Yigal Amir, un ebreo religioso estremista di 25 anni. Per decenni il pubblico israeliano era stato ossessionato dal timore di un grave assassinio politico da parte dei palestinesi e invece il criminale fu un giovane con la kippah legato ai rabbini tra i coloni.
Da allora è sempre più radicata la convinzione che, se si fosse cercato di cancellare le colonie, il Paese sarebbe stato a rischio guerra civile. Non avvenne ai tempi dell’evacuazione di Gaza nel settembre 2005 voluta dall’allora premier «falco» Ariel Sharon, eppure oggi la minaccia è ancora più incombente.
Allora neppure l’assassinio ordito dalla destra riuscì a cambiare gli umori di un’opinione pubblica sempre più nazionalista, religiosa e decisa a non abbandonare i territori occupati. Trent’anni dopo, la morte di Rabin resta una minaccia nel un nuovo governo israeliano dovesse cercare di smantallare le colonie.
La debolezza dell’Autorità palestinese
Un altro elemento di incertezza fu la corruzione e il nepotismo imperanti nel governo dell’Autonomia palestinese in Cisgiordania e Gaza. Arafat portò dall’estero i suoi 10.000 fedelissimi che l’avevano accompagnato in Giordania, Libano e infine nella gestione della macchina governativa inaugurata a Oslo.
Ben presto la sua popolarità cadde ai minimi storici e l’arrivo di Mahmoud Abbas, dopo la sua morte nel novembre 2004, non fece che peggiorare le cose. La vittoria elettorale di Hamas nel gennaio 2006 fu a tutti gli effetti una plateale bocciatura dell’inefficenza del governo dell’Olp. Il primo ministro palestinese Salam Fayyad provò nel 2013 a pacificare i due movimenti, ma fallì e venne esautorato da Abbas.
Oggi lo scontro interno tra i palestinesi resta acuto, come del resto testimoniano anche gli scontri tra Hamas e tribù locali già in corso a Gaza. La scelta israeliana di non liberare il leader dei gruppi giovanili dell’Olp, Marwan Barghouti, è letta da molti come la prova del rifiuto di riconoscere il desiderio di libertà e indipendenza della controparte.
14 ottobre 2025
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