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DALLA NOSTRA INVIATA
BERLINO – «Non bevi più. Bevi acqua anziché vino. Sei sorpresa da quanto è facile. Non capisci perché non lo facciano anche tutti gli altri. Non capisci perché ci hai messo così tanto a capire che avresti dovuto farlo. Vuoi raccontarlo a tutti: gente, eccomi qui, la pietra filosofale! La porta verso tutto quello che hai sempre voluto. L’abracadabra, la panacea. La medicina contro l’insonnia, i dolori, l’adipe, la stanchezza il pessimismo, i complessi d’inferiorità, l’agorafobia, la procrastinazione, il winter blues, le pene d’amore, la povertà, la malattia, la depressione, l’odio, la guerra, la morte».
Inizia così Rausch und Klarheit (Penguin), un saggio personale che qui in Germania leggono in tanti e che è stato per settimane al centro di articoli, interviste, approfondimenti. Il titolo significa «sbornia e chiarezza» e l’autrice, Mia Gatow, racconta come e perché ha smesso di bere alcol.
Non è un classico memoir sull’alcolismo: Gatow, quarant’anni appena compiuti, non ha mai «toccato il fondo» nei modi classici dell’iconografia del «toccare il fondo», quelli che più comunemente siamo abituati a collegare alla dipendenza dall’alcol.
Come molte persone della sua generazione è stata semplicemente a lungo, racconta, una che beveva ogni volta che usciva. Quando ha deciso di provare a ridurre, però, lo ha trovato molto più difficile di quel che avrebbe pensato.
«Viviamo in una società dove ti mettono sempre in mano un bicchiere, e per non bere devi importi. Per questo, per me, la soluzione più facile alla fine è stata smettere del tutto di bere. I benefici? Innumerevoli. Difficile? Per nulla». È stato molto più difficile, dice Mia Gatow alla Zeit in un’intervista delle cento che sono uscite da che è uscito il suo libro, «darmi continuamente regole per ridurre, e trovarmi ogni volta in difficoltà a seguirle».
Le regole sono quelle che si danno in tanti, soprattutto in quest’epoca in cui si sta facendo largo la consapevolezza, come è stato anni fa per il fumo, che la quantità salubre di alcol che si può ingerire è zero e che ogni unità in meno è meglio che una in più. «Niente superalcolici, solo vino. Una birra e un vino poi a casa. Niente prima delle 17. Mai da sola. Non con certa gente. Non in certi giorni della settimana. Settimane di pausa. A volte con fatica, ma sono sempre riuscita a non bere per una settimana, due, un mese».
Un mese senza bere è un’iniziativa che negli ultimi anni hanno preso in tanti: il nome modaiolo è «dry january», cioè tutto gennaio da astemi dopo i bagordi del Natale. «Un ottimo modo di rendersi conto del rapporto che si ha con l’alcol», spiega Gatow, «e anche di darsi l’abbrivio per smettere, mentre molti attorno a te non lo fanno». Ma non una soluzione per la salute. Per gli esperti, per inciso, poter stare un mese senza bere non vuol dire che non si hanno problemi. Non si ha, in moltissimi casi, alcun sintomo di astinenza, come avviene ad esempio in una settimana senza sigarette. Il rapporto con l’alcol segue regole diverse, con conseguenze diverse.
«Sono cresciuta in una famiglia trinkfreudig, gaudente, dove il bere era una parte integrante della vita di un adulto», racconta Gatow. E il suo memoir è anche una fantastica carrellata di foto di famiglia. Di cene tra i genitori e i loro amici eleganti, con vino buono in bei calici; di birra economica bevuta dai cugini punk e dagli zii più giovani; di confronti con quello zio «sempre malinconico» che beveva per curare la malinconia, o forse aveva la malinconia perché beveva, o forse tutte e due. «E questa depressione è un tratto che in me a lungo non ho visto ma che c’era. Comunque per noi bere è sempre stato normale».
In questo la famiglia di Mia non ha molto di speciale: tutti abbiamo in casa la leggenda di un nonno che è arrivato ai novantacinque con un pacchetto di Nazionali al giorno e un bicchiere di rosso a ogni pasto. Proprio come per l’autrice del libro – che in effetti per questo fa parlare così tanto – la nozione che bere non faccia benissimo, no, nemmeno un bicchierino a pasto, è una consapevolezza recente per le nostre società, soprattutto per quelle mediterranee, e in molti ancora faticano a prenderla sul serio.
Proprio dalla tristezza del giorno dopo, che Mia chiama senza remore depressione, parte la decisione di smettere. «Ognuno ha il suo personale fondo, il punto dove le conseguenze negative del bere sono così intense che non vuoi più saperne e cerchi aiuto. Per me non è mai stato una cosa drammatica, non è successo qualcosa di umiliante, semplicemente un giorno ho avuto un postumo di troppo. Alla centesima mattina di merda causa postumi mi sono detta che non avrei più creduto alle mie cazzate. Mi davo regole e le rompevo sempre. Non mi sono sentita né integra né sovrana, tutte le regole che mi davo venivano sempre rotte dal bere».
Anche questo succede a tanti. Alzi la mano chi non si è detto: stasera bevo solo un bicchiere, per poi trovarsi a ordinare il terzo. Non il decimo, ma la regola che ci si è dati è stata infranta, con conseguente piccolo senso di sconfitta. E così via. Normalissimo. «A tutti quelli che si danno tante regole consiglierei di darsene una sola: non bere affatto. È molto più facile. Oltre che liberatorio».
Così Mia smette di bere. È l’estate del 2017. L’ultima birra è con un fidanzato lasciato pochissimi giorni dopo. L’ansia e la tristezza della mattina successiva alla sbronza spingono l’autrice a partecipare a una riunione degli Alcolisti Anonimi. «Lo avevo sempre escluso. Mi pareva un mondo molto lontano dal mio, con abissi molto più profondi, però ho pensato che la relazione con l’alcol era simile alla mia, cioè una relazione in cui non mi governavo».
Ma è possibile, o desiderabile, smettere di bere del tutto? Di certo è una possibilità di cui di recente, collettivamente, si discute. La nutrizionista Silvia Goggi, dal nutrito seguito social, ha lanciato ieri dalle sue story Instagram una sorta di «bando» per uno sviluppatore che le creasse una app dove appuntarsi le unità alcoliche che si è bevuto, e soprattutto quelle a cui si è rinunciato; il punteggio che si ottiene, giorno dopo giorno, è un punteggio in longevità, e la scienza dice che Goggi non esagera: il consumo anche modico di alcol è collegato direttamente a numerosi tipi di tumore (per noi donne: il tumore al seno!), all’insorgenza di diverse malattie di alcune delle quali è proprio la causa, dodici grammi di alcol risparmiati (cioè una birra piccola, un calice di vino o due digestivi non bevuti) sono uguali, nell’app ancora immaginaria, a «un giorno di vita guadagnato».
Tutto benissimo, ma non staremo esagerando? Dov’è nelle nostre vite frenetiche lo spazio per la trasgressione? Non stiamo diventando tutti un po’ fissati? E poi chi l’ha detto che beviamo troppo?
Oggi, prima di inviare questa newsletter, mi sono abbonata al quotidiano britannico Telegraph perché una pubblicità sui miei social indicava che la redazione ha preparato un contatore per confrontare il proprio consumo di alcolici con il consumo medio (e il consumo medio è britannico, quindi un po’ più alto della media di noi mediterranei).
Il test, per chi vuole farlo, è qui (in inglese): ho scoperto così che io, in una settimana normale, in cui esco una sera o due, bevo tranquillamente come un uomo di Manchester, senza nemmeno sbronzarmi. E dire che mi penso «quasi astemia». Anche per questo, il proposito di «chiarezza» della mia coetanea tedesca Mia Gatow mi sembra sempre più saggio.
4 agosto 2025 ( modifica il 4 agosto 2025 | 08:08)
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