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Patrizio Morini, dai dilettanti di Brunico alla Serie A (ma quella di San Marino): «L’obiettivo è l’Europa. Budget scarso? Ci sono io come allenatore»

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«Tra dieci giorni compio 70 anni anagrafici, ma vado verso i 50 biologici». Patrizio Morini, un «perennial» che si tiene in forma con calcio e tennis – la foto con un giovane Jannik Sinner al Circolo Tennis Brunico ricorda gli anni in cui ne è stato il presidente – è un personaggio che non passa inosservato. Allenatore di lungo corso, unico in provincia di Bolzano con diploma Uefa Pro, con 22 trofei e un’autobiografia all’attivo, sta per intraprendere una nuova avventura: dopo aver dedicato la vita ai campi delle serie minori in Alto Adige, cullando il sogno della Serie A, Morini approda a San Marino sulla panchina del Faetano. Serie A sì, ma con il sapore agrodolce di un paradosso geografico: «Allenerò all’estero». È un uomo che non teme le sfide e che ha scolpito il suo nome nel calcio dilettantistico italiano, pronto a rimettersi in gioco con l’irriverenza testimoniata da un’auto che reca la sua firma: «Mister Patrizio Morini».

Cosa rappresenta per lei questa opportunità a San Marino?
«Prima di chiudere la carriera volevo una Serie A. Arrivare in uno Stato estero mi inorgoglisce. Dopo una vita in Trentino-Alto Adige e un’esperienza in Umbria, San Marino è arrivata tramite un procuratore. Il presidente del Faetano mi ha contattato per crescere e insegnare calcio: essere considerato importante è un vanto».

De Gregori cantava «un calciatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». Lei, un calciatore, da cosa lo vede?
«Ci sono tre categorie: il normale, il talento e il fenomeno. Al Faetano presumo di allenare calciatori normali. Porto con me quattro ragazzi: due kosovari, un attaccante francese, un vero talento, e un centrocampista dalla Benacense. Il talento non si insegna, si valorizza».

E lei che calciatore era?
«Io ero un portiere di talento, nato per il ruolo, fino alla Serie D. I miei miti erano Albertosi, Zenga, poi Buffon. Oggi Donnarumma. Tra i calciatori i mostri sacri erano Del Piero, Baggio, Rivera, Mazzola, Gigi Riva. Adesso non c’è più nessuno: l’ultimo è stato Totti. Non abbiamo una nazione calcisticamente evoluta».

Come mai, secondo lei?
«Non è solo per i troppi stranieri: mancano talenti e coraggio nel dare spazio ai giovani. Il calcio giovanile va bene, ma non siamo più all’avanguardia. Siamo a rischio Mondiali e abbiamo visto cosa succede con i play-off».

Nella sua carriera ci sono stati successi indimenticabili come la vittoria in Coppa Italia con il San Giorgio.
«Negli ultimi quindici anni ho vinto quindici trofei, dodici al San Giorgio. I più importanti sono stati la vittoria del campionato di Eccellenza nel 2011 e la Coppa Italia nazionale nel 2018 a Firenze, contro il Trani. Nessuna squadra del Trentino-Alto Adige l’aveva mai vinta: un giorno indimenticabile».

In cinquant’anni ci sono stati anche esoneri e momenti difficili, come a Castiglione.
«Dalle sconfitte, come l’esperienza a Castiglione dove mi sono dimesso dopo cinque partite con un solo punto, ho imparato l’umiltà, a rimanere con i piedi per terra. Ho imparato a non vivere di ricordi e a non esultare troppo presto. L’allenatore bravo non è solo chi sa fare, ma chi sa far fare: trasmettere messaggi e trasformarli in qualità. Questa è una prerogativa che non tutti hanno e io credo di averla».

Da cosa dipende?
«Dal mio modo di essere, dalle competenze indubbie e dal mio carisma. Anche se racconto stupidaggini, il giocatore deve crederci. Il mio punto di forza è il carattere: sono empatico, un ammaliatore».

Filippo Rosace l’ha descritta come un personaggio solitario. Si riconosce in questa definizione?
«Mi ha descritto come solitario, nel libro “Sarò Pat”, perché il portiere vive da solo. Io però sono una persona molto aperta, do tanto, ottengo tanto. Non mi reputo solitario nella vita. La solitudine ce l’ho in campo e nello spogliatoio, perché lì le decisioni le prendo io. L’allenatore è un lupo solitario per definizione».

Qual è stato il motore che le ha permesso di raggiungere i suoi obiettivi?
«L’amore per questo sport. Se non lo ami, prima o poi lo lasci».

Lei ha fatto l’insegnante di italiano. Qualche suo studente è stato anche un suo giocatore?
«Mi sono laureato in lettere a Perugia e ho insegnato italiano per quarant’anni in una scuola media tedesca in Val Pusteria. Diversi studenti sono stati miei giocatori, come Patrick Kofler, Manuel Pipperberger e Markus Rieder. Ho sempre detto che non sempre gli studenti bravi a scuola sono bravi giocatori, ma solitamente chi è un bravo giocatore lo era anche sui banchi».

Ha riscoperto i ragazzi con una prospettiva diversa in campo?
«Fare il professore richiede vocazione, come fare il prete o il medico, e questo mi ha agevolato come allenatore. Dialettica, empatia, correggere, insegnare: tutte analogie dei due mondi. Ho cercato di inculcare valori come la collegialità, la solidarietà, il doversi e volersi aiutare. L’obiettivo comune, il sacrificarsi, il vincere: tutte cose che vivono di pari passo».

Quanto ha inciso la fede religiosa in questa vocazione di educatore?
«Sono credente praticante e ne sono fiero. Ho scritto l’autobiografia con Rosace, di cui ho devoluto l’intero ricavato a una scuola nigeriana, per lasciare tracce della mia vita da allenatore che spero sia un riferimento per tanti ragazzi che si cimentano in questa attività. Molti allenatori e giocatori mi chiamano per avere consigli e io sono pronto ad aiutarli. La mia eredità sportiva e umana vorrei che fosse la serietà, l’abnegazione, la voglia di vincere, di crescere e di essere allenatore».

Chi vorrebbe ringraziare, per questo percorso?
«Mia moglie Carmen, che ha sopportato più di tutti questa mia attività, il mio umore, le mie vittorie e le mie sconfitte, e che anche adesso lascerò sola per sportarmi a San Marino».

È vero che sulla sua macchina campeggia la scritta “Mister Patrizio Morini”?

«Vero. È scritto in nero sul cofano posteriore della mia Mercedes Glb bianca. Vincere crea invidia e questo personaggio è spesso scomodo: ma io continuo a vincere. Due negozi di Brunico hanno voluto associare il loro marchio al mio nome e così da dieci anni cambio macchina ma la scritta mi segue. Però c’è il rovescio della medaglia: chi mi invidia “rosica”, ma sono rintracciabile ovunque. Però mi piace».

Che rapporto ha con i social?
«Ho solo WhatsApp: né Facebook né Instagram. Dopo le partite, sarebbe un disastro: si sentono tutti mister, preparatori, giornalisti sportivi, mi romperebbero le scatole in modo incredibile. Preferisco starne fuori».

Adesso quali emozioni accompagnano il suo nuovo incarico a San Marino?
«Paura no; voglia di far bene tanta. Le difficoltà so che sono tante, mi trovo in un mondo sconosciuto ma non è un salto nel buio: è qualcosa di nuovo che spero mi porti cose positive, gioia, divertimento, successo. Faccio l’allenatore da tanti anni, ma sono sempre a caccia del successo. L’obiettivo più ambizioso è arrivare tra le prime quattro squadre per fare le Coppe europee. Sarà difficile, perché il budget delle prime squadre a San Marino è come quello di una Serie C italiana. Non ha un gran budget, però la mia società ha Morini come allenatore; le altre no».

2 agosto 2025 ( modifica il 2 agosto 2025 | 13:44)

2 agosto 2025 ( modifica il 2 agosto 2025 | 13:44)

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