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Patrizio Bertelli e le «Leboline», la lettera alle operaie di Arezzo: «Non sarete dimenticate»

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Furono il simbolo dell’emancipazione femminile negli anni del boom economico e adesso Patrizio Bertelli, l’aretinissimo patron di Prada, che ha appena acquistato l’area ex Lebole nei cui capannoni furono le prime operaie organizzate della storia cittadina, risponde al loro appello: la memoria del vostro lavoro non sparirà, anzi sarà tramandata alle generazioni future.

Le “Leboline”, come tutti le chiamavano, sono ora donne oltre la soglia della pensione, e dentro i 15 ettari della grande fabbrica i cui capannoni sono in rovina, hanno speso, come scrivono, «la parte migliore della loro vita». 

La Lebole, un nome ormai consunto dal tempo ma ben presente nella memoria, fu il simbolo della trasformazione industriale di Arezzo e dell’Italia a cavallo fra gli anni ’50 e ’80. I due fratelli Mario e Giannetto Lebole fecero di quel marchio di confezioni pret-a-porter uno dei nomi più noti nel campo della moda, pubblicizzato anche da un celebre spot di Carosello.

L’espansione produttiva fu altrettanto prepotente: pochi dipendenti dentro un laboratorio nel centro della città ai primordi, una prima fabbrica ben presto insufficiente ai bisogni nella seconda metà degli anni ’50, una seconda costruita poco dopo, con la prima pietra posta nel 1961 da Amintore Fanfani. Al culmine del boom, la Lebole giunse a dar lavoro, alla fine degli anni ’60, a ben 5 mila dipendenti, per la gran parte donne, le “Leboline” appunto.

Il grande stabilimento di via Galileo Ferraris, a lato del raccordo autostradale verso il casello A1, era il biglietto da visita degli aretini per chi giungeva da fuori. Loro, le donne che ci lavoravano dentro, venivano in gran parte alle origini dalle campagne di tutta la provincia, segno di quella gigantesca migrazione interna che caratterizzò l’Arezzo del boom: inizialmente operaie che si alzavano all’alba la mattina, prendevano treni e bus (poi anche le prime utilitarie) per raggiungere il lavoro e tornavano a casa la sera per accudire famiglie e campi. Quindi l’inurbamento che portò la città in pochi anni a raddoppiare la popolazione: nuovi quartieri, servizi sociali come i trasporti pubblici, gli asili e le scuole per i figli delle “Leboline” e delle colleghe impiegate nelle fabbriche sorte sul modello della casa madre. Di quell’emancipazione fu simbolo anche l’impegno politico e sindacale a sinistra, con almeno due di loro, Gabriella Salvietti e Ivana Peluzzi, elette in consiglio comunale nelle liste del Pci, proprio perchè venivano direttamente dalla fabbrica.

Altrettanto rapido della crescita il declino, con la Lebole passata nelle mani dell’Eni e poi di Marzotto, chiusa nei primi anni 2000 e le vicissitudini di un’area industriale che avrebbe dovuto essere il modello di una riconversione mai decollata, fino all’epilogo di un paio di mesi fa, quando Bertelli ha acquistato tutto per 8 milioni, accordo poi ufficializzato con la firma dal notaio del 29 luglio. 

A stretto giro di posta l’appello delle “Leboline” al manager di Prada: «Nel progetto di ristrutturazione che verrà non dimenticatevi di noi e del nostro lavoro».

Bertelli ha letto e risposto nel giro di 24 ore: «Gentili signore, apprezzo la vostra lettera e condivido con voi la passione che avete manifestato, il contributo che avete dato non potrà essere cancellato. Cercherò di capire come Arezzo possa ‘non dimenticare’ una storia così significativa». 

Qualcosa delle “Leboline”, insomma, resterà anche dopo il recupero dell’area, come e cosa si vedrà. A Ivana Peluzzi, ultima segretaria del consiglio di fabbrica e ultima consigliera comunale uscita dalla Lebole, restano intanto i ricordi, come quello dell’ultimo giorno di lavoro, nel 2000, con le operaie che attraversano il piazzale verso il cancello d’uscita e si voltano prima di andarsene per fissare nella memoria la fabbrica cui avevano dedicato la vita. Ora lei e le altre possono stare tranquille: il loro lavoro non sarà né dimenticato né cancellato.


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1 agosto 2025

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