
Trecento partite arbitrate in Serie A non sono solo un numero. Sono ore di viaggio, sacrifici, tensioni da gestire, decisioni prese in una frazione di secondo. Sono anche emozioni, ricordi che restano e sogni che continuano a bussare alla porta. Domenica scorsa, a Napoli, Fabrizio Paglialunga, fischietto pugliese (di Massafra) dal 2013 in serie A, ha raggiunto un traguardo che pochi possono vantare. «È stata la mia 300esima partita – commenta – una cosa che mai avrei immaginato di raggiungere quando ho iniziato».
Paglialunga ha appena compiuto 50 anni. Di mestiere fa il direttore di banca, a Bari. Una vita che scorre tra numeri, responsabilità e incontri, ma che trova un equilibrio perfetto quando scende in campo con il fischietto. È padre di due bambini, Marco di 11 anni e Maria di 9, e oggi divide la sua quotidianità con la compagna. Tra famiglia, lavoro e parquet, l’arbitro pugliese ha costruito un’esistenza che gira attorno allo sport che ama da sempre.
Il basket, infatti, è una storia di famiglia. «Io e la mia famiglia mastichiamo basket da tantissimi anni», racconta. Inizia a giocare a otto anni, senza grandi risultati, lo ammette lui stesso. Ma a sedici arriva la svolta. «Fu mia madre a spingermi verso l’arbitraggio. Vide un articolo su un corso gratuito a Taranto e mi propose di provare il basket da un altro punto di vista». È lì che tutto comincia: una scelta semplice, quasi casuale, che diventa destino.
Il suo primissimo fischio è un ricordo vivo, tenero, quasi comico. «Era il 1991, una partita giovanile al Foro Boario di Martina Franca. Arbitravo con la maglietta a maniche corte, d’inverno, ero magrolino. Facevo fatica anche a indicare le direzioni». Ma quel gesto timido diventerà, anni dopo, un’abitudine naturale e sicura.
L’esordio in Serie A arriva nel 2013. «Caserta-Venezia, ed ero capo terna, alla mia prima partita. L’emozione c’è stata, ma è durata pochissimo: dovevi concentrarti sulla gara e basta». Da allora, il basket gli ha regalato momenti che un arbitro sogna per una vita intera. Il più grande è del 2021: la finale scudetto, Milano-Bologna, gara 2. «Qualcosa che sognavo da piccolo», dice. La gioia è doppia, perché la condivide con amici fraterni: «Ero in campo con Carmelo Paternicò ed Manuel Hattard, e Denis Quarta era l’arbitro stand-by. Non credo che altri arbitri pugliesi abbiano diretto una finale scudetto: è un orgoglio enorme». Alla fine della partita, il pallone finisce tra le sue mani: un cimelio che conserva in bacheca e che un giorno, spera, passerà ai figli.
Fare l’arbitro oggi è diverso da com’era trent’anni fa. Il gioco è più rapido, i contatti più fisici, le responsabilità maggiori. La tecnologia ha cambiato molto. «L’instant replay è fondamentale. Deve essere usato con buon senso, ma ci aiuta a preservare l’integrità della gara. Non dobbiamo essere noi a decidere le partite, devono esserlo i giocatori». E in un mondo dove ogni decisione può alimentare polemiche, Paglialunga ha un’idea chiara: il dialogo. «Porsi nel modo giusto aiuta tutto il movimento. Il dialogo spegne le polemiche, e in Italia purtroppo c’è ancora una cultura del sospetto. Parlarsi, confrontarsi, aiuta tutti a crescere».
Lontano dal campo, Paglialunga resta comunque immerso nella pallacanestro. «Guardo l’Eurolega, guardo le partite del weekend, mi preparo sempre». E quando può, viaggia. «Mi piace scoprire nuovi posti, osservare nuovi mondi e farlo con le persone giuste».
E adesso, dopo 300 partite? L’arbitro pugliese guarda avanti. «È un traguardo intermedio. Sono ancora alla ricerca di altre soddisfazioni». Due i sogni nel cassetto: un’altra finale scudetto, da assaporare con maggiore consapevolezza, e il desiderio di vedere suo figlio Marco seguirne le orme. «Non lo forzerò mai, ma mi piacerebbe che provasse l’arbitraggio. È una palestra di vita incredibile».
Trecento gare dirette sono un viaggio emozionante. Ma il più bello, Paglialunga lo sa, è ancora quello che deve arrivare.
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19 novembre 2025 ( modifica il 19 novembre 2025 | 15:21)
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