
DAL NOSTRO INVIATO
TEL AVIV –
Dai tetti piatti di una città dove piove poco e dai balconi la gente applaude gli elicotteri che passano nel cielo sopra Tel Aviv. Impossibile vedere dentro i piccoli oblò, non ce n’è bisogno: tutti sanno che adesso la carlinga di metallo protegge qualcuno tra i venti rapiti, che li sta riportando a casa.
La gente applaude davanti ai grandi schermi nella piazza degli ostaggi rimasti accesi dalla mezzanotte di lunedì: il viaggio degli ultimi sequestrati ancora in vita a Gaza è cominciato in diretta, le tappe scandite dai pianti e dagli abbracci delle migliaia di israeliani riuniti in questo quadrilatero dell’angoscia e della speranza davanti al museo di arte contemporanea.
La Croce Rossa
Il primo gruppo comprende sette prigionieri che i carcerieri di Hamas consegnano alla Croce Rossa Internazionale tra le macerie di Khan Younis, la cittadina nella Striscia dov’era nato e cresciuto Yahya Sinwar, il capo dei capi fondamentalista che aveva pianificato i massacri del 7 ottobre 2023 e ordinato di rapire anche i civili. Questa volta i terroristi non inscenano la crudele cerimonia con tanto di attestato e l’obbligo per gli ostaggi di ringraziarli in un discorso davanti alla folla. Il primo passaggio verso la libertà avviene senza riflettori, solo i fari delle auto che spezzettano la nebbiolina sporca di polvere nell’afa della Striscia. Gli altri tredici uomini vengono affidati all’organizzazione di soccorso un’ora dopo. I jihadisti permettono ad alcuni di videochiamare i genitori o le mogli ancora prima del rilascio, le immagini diffuse sui social media diventano per gli israeliani un momento della celebrazione.
Le forze speciali
Le prime testimonianze raccontano che dopo 738 giorni in cattività sono tutti in grado di camminare da soli. Le forze speciali li portano nel tendone bianco allestito per accoglierli, ognuno ha una sua stanza, ad aspettarli i vestiti puliti e soprattutto i familiari, convocati alla base di Re’im: undici dei giovani tornati ieri erano stati presi al festival rave nei campi non lontano da questa caserma. Nei pacchi preparati per loro ognuno trova un simbolo della vita di una volta, quella a cui stanno ritornando: la maglietta del Maccabi Tel Aviv, la squadra di calcio, o il cappellino preferito.
Dopo che tutti sono arrivati al sicuro in territorio israeliano, la polizia ha caricato i quasi duemila detenuti palestinesi liberati nello scambio. La maggior parte dei 250 carcerati — condannati per aver partecipato o organizzato attentati soprattutto durante la seconda intifada — è stata mandata a Gaza, anche se originari della Cisgiordania, con loro i 1.700 palestinesi arrestati durante il conflitto e tenuti nei campi militari. Sono stati accolti come eroi, a Ramallah gli agenti del presidente Abu Mazen non sono riusciti a contenere la folla.
L’euforia degli israeliani è stata seguita dal dolore per la restituzione dei cadaveri. Hamas avrebbe dovuto rimandare indietro 28 bare, in serata aveva reso solo quattro tra i rapiti morti in cattività: Yossi Sharabi, Daniel Perez, Guy Illouz e Bipin Joshi, un ragazzo nepalese che studiava agricoltura in uno dei kibbutz assaltati. «Qualsiasi ritardo o deliberato tentativo di non rispettare i patti saranno considerati una grave violazione a cui risponderemo», minaccia Israel Katz, il ministro della Difesa.
Al di là dei proclami guerreschi, è stata Rachel Goldberg-Polin — il cui figlio Hersh è stato ammazzato dai carcerieri alla fine di agosto dell’anno scorso — a trovare le parole per rappresentare i sentimenti del Paese in queste ore: a una manifestazione sabato sera ha raccontato dei messaggi «immersi nella confusione» ricevuti da lei e dal marito Joe di recente.
La citazione
Il suo preferito diceva: «Sono felice, ma così triste. Ma felice, ma così triste». Ha poi citato un passaggio dalla Torah: «Ci viene spiegato che c’è una stagione per ogni cosa. Adesso ci è chiesto di attraversare tutte le stagioni allo stesso momento». Katya Beizer — madre di Nik, un soldato sequestrato il 7 ottobre — ha diffuso la lettera ricevuta dall’organismo incaricato dal premier Benjamin Netanyahu di individuare i rapiti e provare a riportarli a casa. «C’è scritto: grazie per il tributo pagato, abbiamo raggiunto la fine della guerra e il ritorno degli ostaggi». Solo dopo le sue insistenze l’esercito aveva ammesso che il figlio era stato probabilmente ucciso in un bombardamento israeliano.
Il giro d’onore
Il tappeto rosso di cinquanta metri è stato srotolato sulla pista di atterraggio negli stessi momenti in cui il Paese esultava e ancora ringraziava quello che considerano il salvatore: Donald Trump è arrivato in Medio Oriente per il suo giro d’onore e per celebrare questo «gran bel giorno», come ha scritto nel libro della Knesset a Gerusalemme dov’è stato invitato a parlare. Ai deputati ribadisce: «La guerra è finita», una formula che gli alleati oltranzisti di Netanyahu non vogliono sentirsi dire e che il primo ministro ha accettato solo su pressione dell’amico Donald.
La firma ufficiale
Che da Israele è volato a Sharm el-Sheikh per apporre la firma ufficiale sotto al suo piano in venti punti. Anche nella cittadina-resort egiziana sul Mar Rosso è rimasto poche ore: ne serviranno molte di più per mettere in moto il processo che deve portare alla ricostruzione di Gaza devastata da due anni di guerra — i palestinesi uccisi sono quasi 68 mila — e alla visione vagheggiata nel documento della Casa Bianca: una forza internazionale che entra nella Striscia per garantire l’ordine e il disarmo di Hamas; la gestione transitoria affidata a un ente di cui lui è presidente e Tony Blair, l’ex premier britannico, amministratore; l’obiettivo di restituire il controllo dei 363 chilometri quadrati all’Autorità palestinese dopo una serie di riforme interne.
13 ottobre 2025
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