
Donald Trump difensore della comunità cristiana perseguitata? Il presidente degli Stati Uniti indossa le vesti di una sorta di «papa protestante»? In un certo senso, è così che si presenta in Africa. Ma non in Cina.
In occasione del suo recente incontro con Xi Jinping, non risulta che abbia sollevato il tema degli abusi contro i diritti umani dei cristiani nella Repubblica Popolare. Eppure proprio di recente Pechino ha deciso un giro di vite contro alcune congregazioni protestanti, già costrette alla clandestinità, e i cui leader sono finiti in carcere.
Sullo sfondo ci sono le preoccupazioni della destra cristiana in America, che rappresenta una base elettorale importante per Trump, Vance, Rubio e tutto il mondo Maga (Make America Great Again). Se la Chiesa cattolica ha un papa (oggi americano), se quella anglicana ha il re d’Inghilterra, i protestanti sono storicamente una galassia decentrata, acefala, senza un centro di comando unificato. In questo vuoto di potere, qualcuno vorrebbe che Trump si ergesse a loro difensore nel mondo.
Mentre l’attenzione è focalizzata sulle sue possibili azioni in Venezuela contro il dittatore Maduro e i narcos, nel weekend il presidente ha aperto un nuovo fronte: ha evocato la possibilità di un intervento militare in Nigeria, per arrestare le uccisioni di fedeli cristiani. La Nigeria è la nazione più popolosa dell’Africa, e in effetti da molti anni è il teatro di persecuzioni della popolazione cristiana da parte di terroristi islamisti. In un post pubblicato sabato su Truth Social, Trump ha dichiarato di aver dato istruzioni al Dipartimento della Difesa di prepararsi a un’eventuale azione in Nigeria. Gli Stati Uniti, ha scritto, potrebbero intervenire «a colpi di fucile» contro i militanti islamisti. Ha anche minacciato di sospendere gli aiuti alla Nigeria se questa «continuerà a permettere l’uccisione dei cristiani».
Il problema è reale, non lo ha inventato Trump. Come ricorda oggi Alexandra Wexlers sul Wall Street Journal, un rapporto del 2021 di un’organizzazione non profit nigeriana ha stimato che Boko Haram e altri gruppi siano responsabili della morte di 43.000 cristiani tra il 2009 e il 2021, e ha documentato 17.500 attacchi contro chiese. La milizia Boko Haram, il cui nome può essere tradotto come «l’educazione occidentale è peccato», ha dichiarato guerra allo Stato nigeriano nel 2009 e da allora ha colpito le scuole, rapendo migliaia di bambini per terrorizzare le comunità. Gli Stati Uniti hanno fornito armi e addestramento militare al governo per la lotta contro Boko Haram. L’assistenza americana è diventata sempre più importante poiché i militanti di al Qaeda e dello Stato Islamico conducono insurrezioni in un’ampia fascia dell’Africa occidentale, tra Niger, Burkina Faso e Mali, nel Sahel. Boko Haram non è affiliato ufficialmente ai due gruppi, ma ha legami storici con entrambi.
L’anno scorso mille soldati statunitensi si sono ritirati dal vicino Niger, ponendo fine a una collaborazione durata dieci anni e considerata la pietra angolare delle operazioni antiterrorismo americane nella regione. Gibuti, nell’Africa orientale, ospita quella che ormai è l’unica base permanente degli Stati Uniti sul continente.
La Nigeria ha una popolazione di 237 milioni di abitanti, divisa tra musulmani, la maggioranza nel nord, e cristiani. «Il cristianesimo è di fronte a una minaccia esistenziale in Nigeria», ha scritto Trump. Tra le comunità cristiane che negli Stati Uniti appoggiano Trump figurano gli evangelici o rinati, una definizione che in parte coincide con quella dei pentecostali. Sono le stesse chiese che dominano in Nigeria, dove l’avanzata dei pentecostali è stata descritta come il successo di un «Vangelo della prosperità» (anziché sottolineare che «gli ultimi saranno i primi», incoraggia i poveri ad affrancarsi già in questo mondo). Questo spiega la pressione che leader repubblicani come il senatore Ted Cruz del Texas stanno esercitando sulla Casa Bianca, perché intervenga a proteggere i cristiani in Nigeria.
Le minacce di Trump su un intervento militare in Nigeria sono in contrasto con il suo silenzio sulla sorte dei cristiani in Cina. Non mi riferisco ai cattolici: pure loro perseguitati, hanno tuttavia un portavoce e difensore nella Santa Sede (le trattative tra il Vaticano e Pechino peraltro procedono da anni con molte difficoltà). I protestanti non hanno un difensore, e in questo periodo sono loro nel mirino.
Lo spiega una studiosa esperta sul tema, Gerda Wielander, professoressa di studi cinesi all’Università di Westminster e autrice del libro “Christian Values in Communist China”. Riprendo qui le ultime notizie di cronaca e la sua analisi più recente. Le autorità cinesi hanno arrestato Ezra Jin, leader della Zion Church, il 10 ottobre, insieme a oltre 30 membri dello staff e pastori. Gli arresti si collocano all’interno della più ampia repressione delle chiese cristiane in Cina degli ultimi anni e riportano l’attenzione sui tentativi di Pechino di limitare le attività religiose nel Paese. La Zion Church, una grande chiesa non registrata con congregazioni in tutta la Cina, è da molti anni sotto l’osservazione delle autorità. La domanda quindi non è perché la repressione avvenga, ma perché avvenga ora. Le tese relazioni tra Cina e Stati Uniti hanno tanto peso in questa decisione quanto le politiche religiose interne. Il rapporto della Cina con il cristianesimo è segnato da fasi di tolleranza e persecuzione. Il Paese riconosce ufficialmente cinque religioni: buddismo, taoismo, islam, cattolicesimo e protestantesimo. Solo buddismo e taoismo sono considerate religioni indigene e centrali per la cultura Han. Insieme al confucianesimo, hanno formato le cosiddette «tre dottrine», hanno fornito la base spirituale ed etica della società cinese per gran parte della sua storia imperiale (dal 200 a.C. al 1911).
Altre religioni prosperarono accanto a queste, tra cui islam e cristianesimo, giunte in Cina secoli fa attraverso le rotte commerciali. Le prime fonti storiche attestano la presenza di cristiani nestoriani nel VII secolo. Poi ci furono i grandi missionari gesuiti come Matteo Ricci. Ma la prima espansione di massa del cristianesimo cinese avvenne solo nel XIX secolo, quando la Cina firmò vari trattati con le potenze occidentali che aprirono le porte ai missionari protestanti e portarono alla creazione di istituzioni caritatevoli cristiane. Parallelamente, la presenza di missionari occidentali alimentò movimenti xenofobi che contribuirono alla caduta dell’impero. L’associazione del cristianesimo con l’imperialismo occidentale continua a pesare ancora oggi sulla percezione che Pechino ha di questa fede.
Dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, tutti i missionari stranieri furono espulsi e furono creati organismi religiosi autogestiti e controllati dallo Stato, cioè dal partito comunista. L’insoddisfazione verso questi organismi — dovuta anche all’obbligo di rompere ogni legame con le chiese estere — portò alla formazione delle chiese non registrate, o «chiese casalinghe», che da allora operano fuori dal controllo statale. Cioè nella clandestinità.
Arresti e persecuzioni severe iniziarono già negli anni Cinquanta e continuarono, come per ogni altra pratica religiosa, durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976), un decennio di estrema violenza e sconvolgimenti politici. Quando la Cina uscì da quel periodo, la fede religiosa era sopravvissuta nonostante la repressione. Gli anni Ottanta più liberali permisero una seconda crescita del cristianesimo, grazie a un clima politico più aperto, al ritorno di legami informali con chiese straniere e alla presenza in Cina di nuovi missionari, spesso sotto forma di insegnanti di inglese nelle università.
Una stima parla di circa 90 milioni di cristiani, un numero paragonabile a quello dei membri del partito comunista cinese. Di che preoccupare Xi Jinping. Fin dall’inizio del suo potere nel 2013, Xi ha assunto un tono ideologico fondamentalista, promuovendo elementi della cultura tradizionale cinese combinati con i valori socialisti come dottrina di Stato ufficiale. Allo stesso tempo, ha represso duramente le religioni percepite come potenziali minacce per lo Stato. Il caso più noto è la persecuzione degli uiguri musulmani nello Xinjiang, ma anche i cristiani cinesi ne hanno sofferto. La rimozione forzata delle croci dagli edifici religiosi e la condanna a nove anni di carcere nel 2018 del pastore Wang Yi, leader cristiano di spicco, segnarono un’ulteriore intensificazione della repressione.
Un fattore che complica ulteriormente la vita dei cristiani cinesi è il legame di alcune chiese non registrate o di singoli fedeli con gruppi evangelici statunitensi. Colpire una chiesa non registrata e molto conosciuta come la Zion Church — la cui fondatrice ha una figlia impiegata al Senato degli Stati Uniti — è tanto un messaggio politico indirizzato a Washington quanto un atto di controllo interno.
Molti protestanti americani avevano rivolto appelli a Trump perché usasse il summit con Xi per chiedere un allentamento delle misure repressive. Non risulta che sia accaduto, quando si tratta della Cina Trump non sembra interessato a fungere da portavoce e protettore dei protestanti perseguitati.
3 novembre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA
3 novembre 2025
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