
C’erano tutti questi scatoloni identici, marroni, la scritta «Iron Mountain». E dentro ti immaginavi oggetti diversi, perché erano personali, ma anche molto simili, perché sempre si trattava di penne e fotografie, agende e quaderni. Una fila di ragazzi in giacca e cravatta usciva da un grattacielo di New York; i dipendenti della Lehman Brothers.
Era il 15 settembre 2008, l’inizio della grande crisi finanziaria. Io avevo appena cominciato la professione di avvocato e subito il mondo stava crollando. Auguri, mi dicevo. Quei primi anni sono stati durissimi, dal punto di vista finanziario i peggiori; la Merkel, la lettera dell’Europa a Berlusconi, Monti e le lacrime della Fornero, e soprattutto le aziende che non ce la facevano, concordati e fallimenti, i clienti non pagavano più le fatture e le parcelle. In fondo, da lì l’economia non si è mai ripresa, l’austerità, il grande suicidio dell’Europa. Ma non era finita. Perché dopo la finanza ci sono state, anche, soprattutto, altre crisi, che hanno riguardato ancor più direttamente le vite umane. Gli anni dell’emergenza immigrazione, in parte ben cavalcata da alcuni politici. Quelli del terrorismo, che prendere un aereo e girare il mondo pareva pericoloso, le città assediate, i mercatini di Natale e i teatri, quel grande odio. Poi anche la Brexit, come la fine di un sogno. E l’accelerazione frenetica dal 2020, il decennio più folle e siamo solo a metà.
La pandemia, e chi pensava potesse mai venire una pandemia? Respiratori, ambulanze, tutti a casa. E poi, a guardare specificamente alle imprese, il rincaro delle materie prime, dell’energia, i costi dei trasporti marittimi, Cambridge Analytica e i cyber attacchi, le speculazioni. Sullo sfondo la crisi ambientale, l’innalzamento dei mari, il surriscaldamento globale. E di nuovo i dazi di Trump, il senso che il mondo stia cambiando, e così le alleanze, gli equilibri. Soprattutto le guerre, che sono il doppio di quelle che c’erano vent’anni fa. E sono qui, terribilmente vicine, che così ce ne accorgiamo più facilmente. La minaccia nucleare, i droni che volano sopra le nostre teste. Insomma, un disastro, che c’è poco da essere ottimisti. Ma è giusto così? Forse semplifico troppo, ma è come se dopo la Seconda guerra mondiale ci fosse il senso di un pericolo immane scampato, e così anche la capacità di affrontare le difficoltà, che c’erano, perché nel secondo Novecento c’è stato il terrorismo, le stragi, la mafia, la guerra in Jugoslavia e poi subito nel 2001 le Torri Gemelle. Non era una passeggiata, ma l’aria era diversa. Oggi, siamo precipitati dentro una precarietà, un’incertezza, un’assenza di prospettiva che forse ha sì segnato altre volte la storia dell’Occidente, specie alle svolte dei Millenni, ma certo non le generazioni precedenti. E che si basa su dati oggettivi di declino.
Siamo un territorio che vede i salari abbattersi, che fa pochi figli, che arretra nel peso specifico internazionale, che i tempi per una visita medica si allungano, e specie qui a Nordest si assiste alla fuga di ragazzi che preferiscono andare a vivere all’estero. Stiamo peggio di una volta. Riusciamo a vedere, però, le cose positive? L’Europa mantiene alti standard, di salute, sicurezza, lavoro; è un continente attrattivo, democratico, l’unico che, in pace, sta aumentando di territori e popolazione, Brexit a parte. Il nostro territorio ha ancora un tessuto di imprenditoria sana, capace, che cresce. Non si vive certo male, qui, difficile anzi pensare dove si viva meglio. Insomma, forse non ha senso essere così sempre preoccupati; o, meglio, non serve a niente.
Si potrebbe anche dire che, in questo, la mia generazione è stata avvantaggiata; purtroppo non ha avuto sicurezze, prospettive, sin dall’inizio e insomma si è abituata a vivere dentro la crisi, a sapere che forse ne verrà un’altra, che l’impensabile diventa pensabile. E allora il tema vero è che il problema è che abbiamo perso la fiducia nel futuro. Chi gira un po’ il mondo sa che manca qui, in Europa, nel Nordest, e altrove invece c’è; nonostante tutto. Sicuramente, è proprio di società che invecchiano, come la nostra. Sicuramente è di una società anche saggia, che sa che non è solo il benessere materiale, l’abbondanza di cose, a dare la felicità, e si trova smarrita, di fronte a grandi tragedie se anche toccano altri. Ma rischia di diventare una mentalità, un’attitudine, un vezzo e soprattutto un pericolo; non vedere più le possibilità che ci sono ancora, non esserne più orgogliosi. Ha qualcosa di irrazionale, slegato dagli elementi concreti. Lo ha esemplificato bene un pensatore bulgaro, Ivan Krastev. Dice così: la sinistra ha paura del futuro per l’imminenza della catastrofe climatica, la destra, per la paura migratoria, della fine di un’identità. Va è finire che nessuno si aspetta mai niente di buono. Eppure, dopo tutte queste crisi, siamo ancora qui.
Vai a tutte le notizie di Venezia Mestre
<!–
Corriere della Sera è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati.–>
Iscriviti alla newsletter del Corriere del Veneto
23 ottobre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA




