
Non è la prima volta che l’amministrazione americana colpisce con le sue sanzioni i produttori russi di petrolio. Prima che Donald Trump varasse le misure contro Lukoil e Rosneft nelle ultime ore, il suo predecessore Joe Biden aveva preso di mira nello stesso modo le russe Gazprom Neft e Surgutneftegas.
Come Trump, le sanzioni di Biden si basano su un principio molto semplice e (in teoria) potente: le aziende coinvolte non possono più usare il dollaro per la fatturazione delle loro forniture. E poiché il biglietto verde è la valuta di regolamento di tutte le transazioni di greggio a livello internazionale, già questa proibizione dovrebbe ridurre di molto il fatturato delle major russe del settore.
Può funzionare? L’esperienza di Gazprom Neft (controllata dal governo di Mosca tramite Gazprom) e Surgutneftegas potrebbe far pensare di no. I fatturati dell’export di quelle aziende non si sono ridotti di molto da quando le sanzioni sono state varate dal Tesoro americano nel gennaio scorso (subito prima del giuramento di Trump). Le ragioni del parziale fallimento sulle prime due imprese petrolifere fanno però pensare che qualcosa ora potrebbe cambiare. Trump non era interessato a far rispettare sanzioni stabilite dal suo predecessore e aveva in gran parte smantellato lo staff dell’Office for Foreign Assets Control (Ofac), la struttura del Tesoro che gestisce le sanzioni. Adesso invece questi due fattori potrebbero cambiare, poiché la credibilità di Trump stesso è in gioco.
Tuttavia, appare probabile che queste misure possano erodere un po’ ma non far crollare le entrate petrolifere del governo di Mosca. Il principale acquirente del petrolio russo resta la Cina, che solo in settembre ha comprato oltre il 50% del totale dell’export totale da questa fonte per un fatturato di circa 3,3 miliardi di dollari (secondo il centro studi Crea di Helsinki). Pechino adesso potrebbe approfittare di questa svolta di Trump per imporre a Mosca la fatturazione del greggio in yuan renmimbi e cercare così di allargare il ruolo internazionale della sua valuta. Ma al momento non si percepiscono segnali che il governo cinese voglia frenare l’aggressione di Vladimir Putin contro l’Ucraina. Pechino ha tre forti ragioni perché la guerra in Europa prosegua: riesce a comprare materie prime dalla Russia imponendo prezzi relativamente ridotti, grazie al suo potere negoziale quale principale acquirente; vede ridursi il livello di attenzione degli Stati Uniti al teatro dell’Indo-Pacifico e da Taiwan, punti nevralgici dell’interesse cinese; attinge dalla Russia sempre nuove informazioni sulle innovazioni sui droni (inclusi quelli ucraini) e sull’integrazione fra droni e intelligenza artificiale (grazie alla banca dati di video di milioni di combattimenti di cui la Russia ormai dispone). Quest’ultimo aspetto in particolare permette alla Cina di progredire su applicazioni di droni anche nell’economia civile, che ormai si sta diffondendo nelle grandi città.
Per queste ragioni Xi Jinping, il leader di Pechino, per ora non sta dando segnali di voler ridurre gli acquisti di greggio dalla Russia al punto da costringere Mosca a fermare la guerra.
Quanto all’India, secondo grande importatore di greggio russo con circa il 35% degli acquisti (per 2,6 miliardi di dollari in settembre), è probabile che ora rallenti l’import. Ma non lo arresti. Il governo di Narendra Modi probabilmente è in grado di influenzare direttamente circa un terzo dell’import di greggio dalla Russia. Anche il gruppo privato Reliance di Mukesh Ambani, l’uomo più ricco dell’India, ha annunciato che smetterà di rifornirsi presso Rosneft. Ma il greggio russo potrebbe continuare ad arrivare da altre fonti.
Da verificare poi quanto potranno continuare soprattutto le attività internazionali di Lukoil, che è del tutto privata. Per quanto suoni incredibile dopo quasi quattro anni di guerra, finora Lukoil ha continuato indisturbata ad operare le sue raffinerie nell’Unione europea (in Olanda, Romania e Bulgaria) e le sue reti di distributori (in Belgio, Olanda e altrove). La stessa Lukoil è poi tuttora partner attiva in progetti di esplorazione e produzione in Russia e in Medio Oriente con alcune delle grandi major occidentali: Bp e Exxon sul gas a Shakalin (Russia), Eni in Kazakhstan nel progetto sul Kashagan, ma anche l’altra grande americana Chevron altrove. Lukoil è per esempio ancora attiva in Iraq.
L’impatto delle nuove sanzioni resta dunque da verificare. L’impressione è che non bloccheranno le entrate russe da petrolio. Tuttavia, potrebbero ridurle ulteriormente. Già in settembre le entrate di Mosca da idrocarburi sono scese del 26% rispetto a un anno fa a causa del calo del prezzo (sempre secondo il Crea di Helsinki). Ora una nuova erosione potrebbe portare, pian piano, Putin a capire che per ora potrebbe non avere alternative a un congelamento del conflitto.
23 ottobre 2025
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