
«Mi hanno sempre chiesto di fare un documentario su di me, Toni faceva finta di non sentire. Un giorno mi ha detto: papà lo faccio io, però come voglio io». Nino D’Angelo viene raccontato dal figlio regista Toni, in Nino. 18 giorni, atteso fuor concorso alla Mostra di Venezia (e nelle sale dal 20 novembre per Nexo Studios, mentre ora il cantautore è impegnato nel tour I miei meravigliosi anni ’80).
«Il titolo nasce per gioco – dice Toni – , quando mio padre faceva le sceneggiate di solito si replicavano due volte, ma a Palermo nel 1979, l’anno che sono nato io, ebbe un tale successo che andarono avanti per 18 sere». Nino l’eterno scugnizzo, poeta del popolo, ha girato quasi 30 film, musicarelli, un cinepanettone e uno d’autore con Pupi Avati: «Però non mi sono mai innamorato del cinema, mi facevano sempre fare le stesse cose, le storie erano quelle, il ragazzino povero che si innamora o che faceva innamorare. Ho guadagnato tanto, ma preferivo cantare».
Che rapporto avete col tappeto rosso di Venezia? «Io pessimo», risponde Toni. E Nino: «A me mi piace troppo assai, una cosa esagerata ma bella». Non potrebbero essere più diversi, introverso il figlio (cresciuto sotto l’ala di Abel Ferrara), un vulcano il padre. Il film è tutt’altro che un santino, racconta la depressione che Nino ha vissuto dopo che sua madre si ammalò, nel periodo in cui a Napoli ricevette le minacce di brutta gente, gli spari davanti a casa, poco dopo fu costretto a salire su un’auto, volevano estorcergli un miliardo di lire. Così, avendo perso la pace e il sonno, dovette lasciare la sua amata città e trasferirsi a Roma.
«La depressione è una brutta bestia, anche se non sono un medico perdi il senso della vita. Vidi una prima luce il giorno in cui Toni uscì dalla sua stanza con un mio vestito addosso. Mi chiesi, perché devo far soffrire pure lui?». Suo figlio era adolescente, dice che non si accorse del male oscuro, «coincise con gli anni in cui rifiutavo la musica melodica di mio padre per avvicinarmi a quella metallica, volevo affrancarmi, cercavo la mia strada, come ogni ragazzo».
È l’album della vita di Nino. I primi anni a San Pietro Patierno, «un luogo dimenticato e abbandonato»; gli studi fino alla terza media perché «eravamo sei fratelli, io il primogenito dovevo aiutare mio padre che faceva il calzolaio, e dopo che ebbe l’infarto, d’estate vendevo gelati al bar della stazione e d’inverno le sigarette di contrabbando sui treni». Nino stava cadendo nella palude di bische e cattive frequentazioni, «mi salvarono mia madre e mio suocero: mia moglie, la quercia di casa, la sposai che aveva 16 anni». La scoperta della voce grazie a Don Maurino: «Cantavo i Beatles in napoletano, Let it be diventava Gesù Cri. Facevo il chierichetto, raccoglievo i soldi per i poveri. Questi portateli a casa, mi disse un giorno. Non erano per i poveri, obiettai. E il prete: perché, tu cosa sei?».
Nel racconto la musica entra di continuo: le sceneggiate tratte dai suoi brani, un misto di pianti e vendette, uomini traditi, donne contese, era il Vangelo dei vicoli che riecheggiava quando cantava alle feste di piazza e ai matrimoni, «e siccome erano storie piene di guai a volte con fare minaccioso mi dicevano, questo non lo puoi dire che lo stanno vivendo le famiglie degli sposi e i compari». Andò a Sanremo nel 1986: «Ero sulla scia di Merola e Bruni, avvertii l’ostilità, ero davvero il terrone, poi la critica che mi snobbò mi celebrò». La rivincita ai David, vinse lui e non Piovani de La vita è bella: «Lì non ebbi occasione di parlargli, lo conobbi anni dopo per un progetto su Eduardo che non si fece». Miles Davis si innamorò della voce di Nino salendo su un taxi, «io lui non l’avevo mai sentito nominare, pensavo fosse un calciatore».
A Napoli erano in due, lui e Maradona, contro il potere: «Ci siamo amati perché avevamo la stessa storia, il dolore è uguale per tutti, sono l’unico che ha fatto un film con Diego, Tifosi, poi andavamo a cena da Bruscolotti, suo compagno di squadra, perché impazziva per gli spaghetti aglio, olio e peperoncino che preparava la moglie».
Ma lei, Nino, ha mai patito la fame? «Sì, e mi arrabbiavo con mio padre: possibile che non posso mai fare nulla perché non ci sono i soldi? Ai provini dei cantanti mi dissero che per incidere una canzone dovevo portare 500 mila lire, ci fu una colletta tra i miei familiari. Poi mia madre e mio suocero si indebitarono per il mio primo 45 giri, la storia di un ragazzo che fa uno scippo, manco a dirlo, una sceneggiata». Le dava fastidio quando la chiamavano scugnizzo? «E perché mai, è un onore anche oggi». Scugnizzo, come il lustrascarpe (il suo primo lavoro), di Sciuscià di De Sica. Rinunciare al caschetto biondo fu una rinuncia dolorosa? «Assolutamente no, aveva fatto il suo tempo, era difficile cambiare e andare verso le canzoni sociali col caschetto in testa».
I pezzi che più la rappresentano? «Nu jeans e ‘na maglietta, e Senza giacca e cravatta, che è il mio ritratto. Sono ignorante perché me l’ha imposto la vita. Ma quanta strada aggio fatt’».
2 agosto 2025 ( modifica il 2 agosto 2025 | 08:02)
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