
Chi ha paura dei robot e delle intelligenze artificiali potrebbe combatterla studiandone la genesi e mettendo da parte la diffidenza. Certo, i timori sono fisiologici e l’ansia non genera solo mostri ma anche prudenza: in questa direzione chi li studia e li progetta suggerisce di prendervi confidenza partendo dall’etimologia del termine. «Robot significa ‘servo’ se torniamo all’origine del termine», spiega Nicolò Pagliarani, 28 anni. Da Rimini, dove è nato, è arrivato ad Harvard passando per Università di Bologna e la scuola superiore Sant’Anna di Pisa: gli allori hanno coronato un corso di Laurea in Ingegneria biomedica all’Alma Mater emiliana, in Ingegneria bionica alla prestigiosa scuola toscana. Poi il post-dottorato in BioRobotica sempre a Pisa e il periodo di ricerca ad Harvard dove ha lavorato ad un progetto in collaborazione con la Nasa.
Il presente lo vede co-fondatore di Capio Robotics, startup emergente in fase seed e con finanziamenti acquisiti e in fase di acquisizione, che sviluppa soluzioni di robotica soffice per l’agroalimentare. Pagliarani è anche tra i dieci vincitori della dodicesima edizione, quella 2025, del Premio Italia Giovane della Luiss. L’occasione è buona per parlare di robotica senza peli sulla lingua, con uno sguardo realistico al presente e uno al futuro. Il punto di partenza è l’agritech, quello di arrivo, capirci un po’ più di robotica tour court.
Niccolò Pagliarani, partiamo da Capio Robotics. Che cosa state progettando?
«Grippers, “pinze’ che permettono di automatizzare la raccolta di verdura, di funghi, di frutti. Sono pinze ad aria compressa. Il robot lavora con un sistema di sensi e percezione, riconosce l’oggetto. C’è anche una componente di intelligenza artificiale qui declinata nell’accezione di physical AI. Intelligenza artificiale fisica. Non viene programmato con un algoritmo ma ‘ragiona’ con i sensi. ‘Soft robotic’ significa che le componenti sono realizzate con gomme naturali e tessuti. In questo modo il robot individua la morfologia del prodotto raccolto e la cataloga».
L’obiettivo è andare nei campi?
«Si il fine ultimo sarebbe quello. Al momento, in questa fase iniziale, impieghiamo un robot cartesiano, molto semplificato. Ad Harvard ho lavorato con una tecnologia simile quando mi sono occupato di robotica per lo spazio anche in collaborazione con la Nasa. In questo caso parliamo di strutture bassate su tessuti che crescono con aria compressa. ‘Growing robot’ che raggiungono anche i cinquanta metri di altezza dopo essersi sganciati dai rover, cioè cingolati. Nello spazio possono essere impiegati per raccogliere campioni e in maniera simultanea con la stessa tecnologia raccogliere informazioni».
Physical AI, riusciamo a spiegarla con una definizione semplice?
«Dare un corpo all’intelligenza artificiale attraverso la robotica».
Lei come vede il futuro sotto questo profilo?
«Ci sarà sicuramente una rivoluzione nei prossimi cinquant’anni e questo è chiaro. Detto questo non credo che vivremo in un mondo popolato da robot come lascia intendere una certa narrazione per così dire cinematografica. Non penso che il mondo sarà popolato da umanoidi, per quanto in Asia, come ad esempio in Cina, ogni tanto ne compaia qualcuno. La rivoluzione avverrà a piccole ondate: sistemi di intelligenze artificiali distribuiti e connessi tra loro. Ogni modo io spero di vedere i robot in quei contesti in cui l’uomo non riesce più a operare».
Cioè?
«La parola Robot compare per la prima volta in una novella dello scrittore Karel Capek. Era il 1920. L’etimologia delle parole è importante per comprendere i concetti che celano. In sintesi, ‘Robot’ significa sforzo ed è riferito ad un vero e proprio ‘lavoro forzato’. Ad essere estremisti significa quasi schiavo, più umanamente ‘servo’. L’etimologia suggerisce che oggi possiamo auspicarci che l’impiego dei robot possa essere riservato alla risoluzione dei problemi».
Esempi?
«Come può essere la raccolta dei frutti, se si pensa al fatto che possa essere faticoso farlo sotto il sole cocente on in altre condizioni. Ma anche estendendo il campo il caregiving: da una parte, ed è solo un esempio, pulire un anziano non autosufficiente può essere un compito da far svolgere ad un robot. In questo modo l’uomo potrebbe concentrarsi sull’aspetto empatico: non possiamo delegare ad un robot di prendersi cura di quell’anziano non più autosufficiente sotto il profilo empatico».
E poi c’è la solita domanda, anche nei lavori manuali i robot creano vuoti occupazionali. Cosa risponde?
«Si lavorerà meno in certi ambiti ma più in altri, quindi è un circolo. Un robot ha bisogno di squadre che lo gestiscono, programmano eccetera».
Spostiamo il focus sulla sua carriera. Lei quando ha iniziato a occuparsi della sua materia?
«Non sono di certo il tipo che da piccolo sognava di costruire i robot. Neppure quando ero giovanissimo alle scuole superiori. Certo sono stato sempre incline allo studio della matematica e delle materie scientifiche. Ma, per fare una battuta, non sono mai stato un nerd. Mi sono laureato in ingegnerai biomedica all’Unibo, un ambito che mi ha sempre interessato. Poi alla scuola superiore Sant’Anna in Ingegneria bionica, dove ho conseguito un dottorato con esperienza ad Harvard in collaborazione con la Nasa».
E come è andata negli Usa?
«Ad Harvard ho capito l’importanza del team: per esempio per i robot agritech serve una persona esperta di piante non solo di robotica. Servono competenze trasversali e ambizioni ugualmente trasversali. E tanta fatica, io lavoravo con un collega portoricano che veniva a volte accompagnato da sua moglie in laboratorio. Al venerdì ci davano compiti per il lunedì che dovevamo svolgere nel weekend. Ma non mi lamento, ho vissuto anche il mio ‘American Dream’. Eventi culturali, opportunità, insomma un periodo di vita bella piena».
Ci tornerebbe?
«Dovevo tornare, altroché. Solo che poi Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti. Ha cancellato finanziamenti su finanziamenti, messo il veto sugli europei. Una situazione assai difficile ma non è affatto detto che non si sblocchi. Non so se tornerò anche perché siamo in fase di lancio della start up che dovrebbe concludersi nel 2026 con la sua costituzione vera e propria».
Una soddisfazione che si è tolto?
«Mi hanno selezionato come vincitore della sezione BioRobotica tra i talenti under 35 del Premio Italia Giovane giunto alla dodicesima edizione e indetto dalla Luiss. Sono orgoglio anche di occuparmi di arte e robotica: alla Robosoft Art Expo ho contribuito ad organizzare mostre in cui abbiamo chiesto ad artisti e scienziati di fondere le due discipline: e quindi installazioni, robotiche, sculture, video foto a tema robot, o performance di robot e danza».
Lei ha lavorato in Italia e all’estero. Il nostro Paese è all’avanguardia su robotica e Ai?
«Se guardiamo alla formazione l’Italia ha sicuramente tante eccellenze. Studio, formazione, tirocini, collegamenti con Università ed enti esteri ed esperienze internazionali. Il problema è il solito come in tutti gli ambiti di ricerca. Non riusciamo a trattenere i talenti».
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20 novembre 2025
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