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«Nanof», successo a Spoleto per l’opera che racconta genio, dolore e follia

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Suono che avvince e trafigge, voci sferzanti o siderali. Uno spettacolo che incide nell’ascoltatore – quanto la fibbia del suo sventurato protagonista, Nanof, uno schizofrenico dal genio misterioso, per anni incide, con i segni di un proprio linguaggio, tra scrittura e pittogramma, l’immenso muro del manicomio dov’è internato. Sette minuti di applausi sono ancora pochi per Nanof, l’Altro, nuova opera di Antonio Agostini, commissione del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto, al debutto al Teatro Caio Melisso della città umbra, regia di Alessio Pizzech, scene di Andrea Stanisci, con l’Ensemble Calamani e il Coro del Tls diretti da Mimma Campanale, giovane musicista-psicologa.

Ispirata a una vicenda reale, il calvario di Oreste Fernando Nannetti (che si fa chiamare Nanof), rinchiuso nel manicomio di Volterra negli anni Sessanta, la nuova proposta del Tls guidato da Enrico Girardi si può annoverare tra le creazioni d’avanguardia più efficaci viste negli ultimi quarant’anni. Vera, spietata. Sì, meriterebbe di entrare in repertorio. È raro che un’opera contemporanea generi un’aderenza così globale al soggetto (il libretto di Chiara Serani e dello stesso Agostini lascia ampi spazi alle parole del vero Nannetti, lampi di «folle» poeticità), una convergenza così esatta tra musica, passo scenico, pervasività visuale, recitazione vibrante, immedesimazione e valore degli interpreti. «È un’opera che racconta, sì, la follia – confida il regista –, ma anche la potenzialità creativa insita nell’essere umano; e insieme il tema dell’eredità che lasciamo dopo di noi: un atto vitalistico potentissimo».

Da Nanof, l’Altro si esce scossi: per il tema, la sofferenza diffusa nei manicomi prima della Legge Basaglia, per la sobria forza delle scene via via «sublimate» (il muro dei graffiti, l’orrore dei letti di contenzione, che infine si sollevano in aria al procedere della «liberazione» del protagonista). E per la scrittura di Agostini: tesa, tagliente, ma calibrata fra minuzie timbriche, ora aspre, ora singolari (carta d’argento, radio accese e poste capovolte sulla pelle di timpano e grancassa…), agglomerati ritmici che pullulano e incalzano con trama millimetrica, equilibrio di utensili espressivi (cantato e parlato, suono acustico o elettronico, fonemi aspirati o soffiati) e una fascinosa sapienza polifonica. 

Agostini dice di aver intrecciato nel suo ordito citazioni dal Wozzek di Berg, dal Prigioniero di Dallapiccola (notevole il parallelismo), perfino da Andrea Pazienza. Ma il suo cammino svolta poi per vicoletti tutti suoi. «Questa non è una musica di compromesso o di sintesi tra diversi linguaggi o stili o tecniche compositive – ha detto Enrico Girardi –, è una musica che ha un suo segno forte, certamente originale». Per dire, non indulge al pittoricismo neppure in un momento apparentemente «descrittivo» come la devastante scena dell’elettroshock subìto dal paziente: dove i glissandi dei legni e degli archi, le terzine delle viole pizzicate nel vuoto o i lunghi tremoli dissonanti eludono la mimesi e si fanno evocazione (compreso lo sfregamento di blocchi di polistirolo, invero non facile da cogliere all’ascolto!), riverberi di ciò che tanta brutalità ha scatenato nella mente del povero protagonista. 

A una schizofrenia di voci udite o agognate, a una proliferazione di fantasmi (Nanof si autodefinisce «Colonnello astrale», «Imperatore di Francia», «Scassinatore nucleare», «Santo con cellula fotoelettrica”», «Astronautico ingeniere (sic) minerario nel sistema mentale», «Fulminatore microscopico e telescopico”»…), consegue in Agostini un’angosciante disseminazione sonora, suoni come polvere o schegge di pietra, l’assordante marea di un rumore bianco, onde radio in sospensione cosmica, guizzi d’archi come palpiti quando Nanof invoca il «cielo così bianco» e «la libertà»…

Pizzech riesce a guidare qui i giovani del Tls in un’autenticità scenica, di movimenti e reattività come non spesso capita di vedere nei teatri d’opera. Spicca in questo il baritono Marco Guarini (Nanof), fluido nei passaggi cantato/parlato, naturale nel rendere i tratti più agghiaccianti del suo personaggio, le convulsioni, gli spasimi durante l’elettroshock, il vagare allucinato nell’abisso delle proprie visioni. Meno a fuoco l’intervento del Primario, nel Terzo Quadro, reso macchietta farsesca, quando la partitura non lo tratteggia alla fin fine che come borioso indifferente.

Oltre al Coro, che ha passi riverberati molto suggestivi («Fratello, spera…»), è dalle due figure femminili, Lei1 e Lei2, la donna-madre e la donna-amante, che più affiorano le dissociazioni, le ferite profonde del protagonista: il contrasto etico/vocale tra le due voci/ipostasi via via si scioglie in dissolvenza. Le interpreti, Chiara Latini ed Emma Alessi Innocenti, fondono alta agilità vocale (Lei1 brilla anche nei non facili passaggi di canto inspirato/espirato in rapida successione, come su «i fantasmi sono furmidabbili»…), intensità gestuale, sensualità, disperazione. Il finale è tutto loro. Dapprima intonano filastrocche-regressione in girotondo, spettrale contrappunto anche di diverse tecniche di emissione. Poi la scena si trasforma in una spoglia Deposizione. Le pie donne sfregano e lavano chine il corpo nudo di Nanof, intonando, ora vocalmente più unite, un rarefatto compianto. È la toccante «Salmodia» conclusiva. Che cita Jacopone («Figlio, amoroso giglio…») e si spegne sull’acuto dei violini, l’arco «quasi immobile»: «come un fruscìo» – o una trasfigurazione. 

9 agosto 2025

9 agosto 2025

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