
E’ morto oggi, 27 giugno, il padre del sindaco di Torino Stefano Lo Russo. Il signor Mario, 83 anni, era ricoverato in una struttura protetta. In questa intervista pubblicata lo scorso 2 giugno, il sindaco Lo Russo raccontava il rapporto che aveva con suo padre e la sua incredibile storia. La riproponiamo.
«Il rapporto con mio papà Mario oggi è sereno ma il suo racconto non può prescindere dalla storia della sua famiglia». L’agenda di un sindaco è implacabile, carica di impegni senza sosta, ma Stefano Lo Russo accetta di fare una pausa per raccontare il rapporto con suo padre.
Partiamo dal racconto.
«La famiglia dei miei nonni era molto povera e come tante altre negli Anni 30 fu costretta a emigrare dalla provincia di Bari per cercare fortuna. Avrebbero dovuto partire per l’Argentina, ma il lungo viaggio in mare terrorizzava soprattutto mia nonna Rosa. E così nel 1935, su sollecitazione del regime, si trasferirono in Libia che all’epoca era colonia italiana. Ebbero sette figli, di cui tre nati in lì. Uno dei tre è mio papà».
In Libia, dove?
«Papà nacque nel Villaggio Luigi di Savoia, una località agricola vicino a Derna in Cirenaica. Era il marzo 1942, in piena guerra».
Quindi, cosa accadde?
«Le truppe degli Alleati, che avanzarono da est verso ovest costrinsero all’evacuazione la popolazione civile italiana dalla Cirenaica, in particolare da città come Bengasi e Derna. I primi a partire furono le donne e i bambini, così, mio padre, a soli otto mesi, viaggiò di notte, in braccio a mia zia Gianna, su un camion militare fino a Tripoli. Lì furono collocati insieme ad altre migliaia di persone in un campo profughi improvvisato e qualche settimana dopo furono raggiunti anche da mio nonno Pietro e dagli zii. Una scena che credo non fosse molto dissimile da quelle che vediamo adesso in altre parti del mondo».
Quanto tempo restarono nel campo?
«Fino al 1947, quando vennero rimpatriati».
Tornarono a vivere a Puglia?
«Sì, in un campo profughi a Bitonto. È lì che mio papà fece la prima elementare».
Quando arrivarono a Torino?
«Alla fine del 1948. Furono ospitati dalla zia Antonietta, sorella di mio nonno, nella sua abitazione di via Veglia, in una cascina che ormai non esiste più. La casa si trovava in prossimità delle cosiddette Casermette che accoglievano gli italiani sfollati provenienti da diversi territori al termine della guerra, tra cui gli esuli giuliano-dalmati».
Fu facile il rientro in Italia?
«Per nulla. Si trovavano nella condizione di ripartire completamente da zero. Mio nonno venne assunto dalla Fiat in qualità di sorvegliante a Mirafiori. Rimasero a vivere dalla zia fino al 1961 quando, finalmente, riuscirono a spostarsi in una piccola casa tutta loro in via Allamano 23».
Forse intende dire “Corso Allamano”…
«No, allora non era il grande corso che conosciamo oggi ma solo una via nell’estrema periferia, praticamente in campagna».
Suo padre riuscì a studiare nella vita?
«Finì le elementari all’Istituto Santorre di Santarosa, seguì l’avviamento industriale che allora era un percorso alternativo alle scuole medie al Plana di Piazza Robilant dove studiò ancora per tre anni alla scuola professionale per disegnatori. Nel 1961 venne assunto dalla Stipel, la società che poi divenne SIP e poi Telecom Italia».
Che carattere ha suo padre?
«È sempre stato molto solare e simpatico. Ha coltivato tutta la vita le sue passioni: il calcio, il ciclismo, la pesca, la fotografia. Sempre in movimento. Lavorò tutta la vita in Sip, l’ha sempre voluta chiamare così, e fu felice di raggiungere presto la pensione per godere del suo tempo libero».
E le sue caratteristiche invece?
«Sono intransigente con me stesso e sento molto forte il senso del dovere, aspetti che credo di aver ereditato da mia madre».
Suo papà è un sopravvissuto alla guerra. Quanto ha inciso la sua storia nel suo carattere?
«Penso davvero tanto. Ha avuto una infanzia difficile, caratterizzata da forte precarietà e molte privazioni. Ricordo alcuni suoi racconti: quando arrivarono a Torino, in casa mangiavano la carne un solo giorno alla settimana e, secondo la cultura di allora, il pezzo migliore e più grande era riservato al capo-famiglia, mentre i pezzi più scadenti andavano ai figli più piccoli tra cui lui. Lo raccontava spesso, soprattutto quando andavamo al ristorante. Penso sia stato per lui un grande trauma».
Un ricordo tenero?
«Sapere che il primo pallone, di cuoio marrone, gli fu regalato dalla Fiat, come dono natalizio dato ai figli dei dipendenti. Quando lo raccontava gli brillavano sempre gli occhi».
I suoi risultati professionali sono arrivati presto, come la cattedra da ordinario al Politecnico all’età di 42 anni o l’elezione a sindaco. Quanto ha contato la figura di suo padre nel suo percorso professionale?
«Mio padre è sempre stato molto orgoglioso dei risultati che ho raggiunto nello studio, nel lavoro e in politica e, soprattutto, non ha mai osteggiato il mio percorso. Io ho cercato di rendermi indipendente economicamente molto presto».
In che modo?
«Per non pesare troppo sull’economia della famiglia durante gli studi ho fatto diversi lavori. Anche il gelataio».
Dove?
«A Cogne in Valle d’Aosta, d’estate durante le scuole superiori».
Un momento difficile?
«La separazione dei miei genitori, che avvenne nel luglio 1986. Avevo 10 anni. Negli Anni 80 era ancora considerato un fatto scandaloso. Ricordo che nella mia scuola eravamo solo in due ad aver vissuto questa esperienza».
Come cambiò il rapporto con suo padre dopo la separazione?
«Cambiò molto. Papà non era forse mentalmente e materialmente pronto ad affrontare una separazione. Per lui fu un grande trauma che credo non abbia mai del tutto metabolizzato.
Ora vive da solo?
«Da un anno, purtroppo, vive in una Residenza Sanitaria Assistenziale per gravi motivi di salute».
Cosa vi univa?
«Seguiva con grande piacere e passione la mia carriera di arbitro di calcio. Mi accompagnava volentieri in giro per il Piemonte. Ha smesso solo quando sono passato in Serie D».
Un bel complimento che le ha fatto?
«Il suo pianto liberatorio per la mia elezione a sindaco».
La critica più feroce?
«Mi considera troppo duro ed esigente con me stesso».
Ha ragione?
«Forse sì. Chiedo molto a me stesso e quando mi prefisso un obiettivo tendo a non mollare facilmente. Ma quando si è molto esigenti con se stessi, si tende a diventarlo anche nei confronti degli altri. E questo non sempre è giusto o capito».
Qualche rimorso nei confronti di suo padre?
«Non ho particolari rimorsi, ho cercato di fare tutto il possibile per aiutarlo anche in questa fase più difficile in cui è molto vulnerabile e ha bisogno di essere protetto. Gli voglio bene».
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27 giugno 2025 ( modifica il 27 giugno 2025 | 19:03)
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