Gentrificazione è un’espressione ricorrente nel discorso pubblico, legata alle trasformazioni delle città contemporanee. È un concetto sociologico che indica il progressivo cambiamento di un’area urbana da proletaria a borghese a seguito della rigenerazione di immobili e la loro vendita (a prezzi fortemente rivalutati) a soggetti estranei al quartiere. Il dibattito sulla gentrificazione è esploso in questi giorni perché legato alle inchieste giudiziarie su Milano. E, parlandone, in qualche modo è maturato quasi in automatico un giudizio netto: i ricchi hanno vinto, i non abbienti sono stati espulsi dalle loro zone di residenza, la città ha legittimato questi mutamenti giustificandoli con la modernità, la bellezza, il decoro e la sicurezza. Ma — ed è questa la domanda più intrigante — è possibile e realistica invece una gentrificazione gentile? Una rigenerazione urbana che non presenti vinti e vincitori e crei valore aggiunto condiviso?
«Scambio inuguale»
Giovanni Semi, docente di sociologia all’università di Torino, autore di un libro proprio sulla gentrificazione, commenta: «Rispondendo da sociologo devo dire che si tratta di un ossimoro, perché la gentrificazione porta disuguaglianza». Naturalmente, aggiunge Semi, sono possibili più punti di vista. «Una femminista potrebbe aggiungere un giudizio di genere: un quartiere degradato è più insicuro e uno gentrificato garantisce meglio la libertà di spostamento e di espressione delle donne». Un architetto, continua Semi, potrebbe sostenere che si dà valore a un quartiere, si porta più illuminazione, si sviluppano le attività commerciali, più sicurezza per le persone, passi avanti nella cultura della progettazione e via di questo passo. Quindi a seconda dei punti di vista la rigenerazione può determinare giudizi diversi. La domanda, però, alla quale tutti devono rispondere, è «chi cattura il valore aggiunto?». E la risposta di Semi è che ne usufruiscono ceti e categorie differenti da quelli che lì abitavano prima. Si realizza quindi uno scambio ineguale. «Se guardo alla storia di 40 anni di urbanistica europea non trovo uno scambio vantaggioso. Si è vista poca o pochissima redistribuzione in termini di servizi o più case pubbliche, mentre si è formata una rendita per pochi».
Il caso «Corso Garibaldi»
Da più parti si segnala il caso virtuoso di Vienna e delle sue politiche urbanistiche. «Per carità – risponde Semi – è un caso interessantissimo, ma eccentrico. Vienna è governata da lunghi anni dai socialdemocratici, è di fatto una Città-Stato, ha il 75% di edilizia pubblica». Fatta salva l’eccezione viennese, la politica non è parsa interessata a redistribuire il valore. «Milano è sicuramente più bella degli Anni Novanta, ma chi beneficia di questa trasformazione?».
Una gentrificazione gentile è invece possibile per Leopoldo Freyrie, ex presidente nazionale dell’Ordine degli Architetti. «Faccio un esempio concreto: corso Garibaldi a Milano. Una zona gentrificata, ma con case e negozi di proprietà del Comune. Così ci abitano vip e persone che pagano un affitto equo. I commercianti non sono stati espulsi». Ma corso Garibaldi è replicabile ovunque? «No, al Bosco Verticale o nel progetto della Torre Botanica non si poteva. Le spese di condominio sono così elevate che selezionano il target. Dentro uno stesso edificio non si può rigenerare con equità, ma dentro un quartiere sì». E a Porta Nuova? «Lì la soluzione più giusta sarebbe stata costruire abitazioni superlusso, ma ristrutturare e riordinare tutto il patrimonio edilizio intorno».
Compensare e costruire
Il dibattito, dunque, da Semi a Freyrie si sposta sulle compensazioni per i permessi di costruire. «Possono essere di vario tipo ma, attenzione, il Comune di Milano fatica a spendere i 160-180 milioni l’anno che incassa dagli oneri di costruzione. Non ha la capacità organizzativa, non è all’altezza. Ci impiega anni». E poi le norme sulle compensazioni «sono vetuste, il mondo è cambiato». L’esigenza di gestire virtuosamente i rapporti pubblico-privato però resta: le opere di compensazione vanno fatte realizzare ai privati perché non basta far pagare gli oneri di urbanizzazione per realizzare in tempi utili più socialità.
Alessandro Maggioni, architetto e presidente Consorzio Cooperativa Lavoratori, preferisce non usare il termine gentrificazione, «di per sé aggressivo». Meglio parlare di crescita delle città e di «giusta misura». Come si persegue quest’obiettivo? «Misurando, regolando, redistribuendo» e per questo motivo Maggioni sostiene che ci sarebbe voluta un’urbanistica più regolativa e meno liberista. La legge regionale 12 del 2005 secondo lui ha dato la stura a quei processi, ma una città è più complessa della sola dimensione finanziaria, «non si può vivere di sola attrattività e poca redistribuzione». Per temperare l’aspetto feroce della globalizzazione Maggioni non è contrario «a tasse di scopo», ma la via diretta è definire la quota di mercato destinata alla rigenerazione sapendo che «sarebbe pura demagogia inserire l’edilizia regolata nel centro finanziario della città». Se fossi sindaco, aggiunge Maggioni, aprirei una riflessione: come è possibile che dalle plusvalenze immobiliari non resti attaccato un cent per la municipalità? In passato c’era il programma pluriennale di attuazione con obiettivi dell’amministrazione che rispondevano a priorità discusse e decise in consiglio comunale. «Oggi questa procedura viene saltata in nome di un fideismo nel mercato. Non è vero che le procedure allontanerebbero i capitali. Se un imprenditore ha più chiarezza sui gravami che si deve caricare ha anche più certezze nell’operare. E si cancella il negoziato grigio».
Fondi e affondi
Ascoltata qualche opinione qualificata, si possono però aggiungere alcune considerazioni. L’impegno per realizzare una gentrificazione gentile appare come una lotta di Davide contro Golia. E sul terreno ci sono anche palesi contraddizioni: ad esempio l’archistar Stefano Boeri che da alcune intercettazioni appare come un Rasputin dell’urbanistica è lo stesso che ha promosso come anima della Triennale un’esposizione dedicata alle Inequalities, le disuguaglianze. Il guaio è che a questa contesa tra interesse pubblico e forze di mercato i Comuni arrivano con il cappello in mano. Milano ha avviato una straordinaria operazione di riqualificazione delle aree dismesse senza disporre di soldi pubblici e di conseguenza si è trovata a un bivio : «O finanziamo gli investimenti su scuole/parchi con la rigenerazione urbana oppure non facciamo niente». È chiaro che in queste condizioni la modernizzazione gentile resta una pura petizione di principio. Tanto che il migliore alleato di una gentrificazione aggressiva sono state la scarsità di risorse della finanza pubblica locale e l’assenza di grandi operatori pubblici con spalle larghe e capaci di confrontarsi da pari con i privati.
Come sottolineato da diversi interlocutori, infatti, la gentrificazione si può correggere a livello di decisione alte e non certo dal basso. A livello di quartiere può accadere che Porta Venezia contagi Nolo e lo faccia cambiare, ma decidere misure di compensazione come lo spazio assegnato al social housing non è tema che si discute nel quartiere. Anche perché in qualche maniera Milano è un esempio di come l’immobiliare sia stato ampiamente «mangiato» dalla finanza e come siano cambiati parametri e appetiti di profitto. Si può dire che la sinistra milanese di governo sia stata subalterna a questi processi, abbia cercato di contrastare la voracità dei privati senza strumenti adeguati e abbia dimenticato le ragioni della lotta alla disuguaglianza. Forse erano possibili altre policy di tutela, altri approcci.
6 agosto 2025
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