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Mika: «Da piccolo mi hanno cacciato da scuola: non sapevo leggere né scrivere. X Factor? All’inizio tra Morgan, Elio e Ventura non capivo nulla»

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Artista eclettico, cittadino del mondo, trasformista dei passaporti (madre libanese, padre americano, cresciuto tra Parigi e Londra), Mika torna in Italia per 4 concerti a luglio (Umbria Jazz, No Borders, Este Music Festival, Anfiteatro del Vittoriale), ma prima conduce la serata di premiazione dei David di Donatello (Rai1, mercoledì 7 maggio): «Sono un grande fan del cinema, del potere di un cinema che sa essere leggero, poetico, politico, che sa dialogare con il mondo. E sotto questo aspetto l’Italia è eccezionale, dal dopoguerra in poi questa capacità è stata incredibile. Scorsese ha raccontato benissimo l’impatto che il cinema italiano ha avuto sul resto del mondo».

Lei ha conosciuto l’Italia anche attraverso i film italiani.
«Io non parlavo italiano e ho potuto capire profondamente certi cantautori, come Tenco, De André o Battiato, solo imparando la lingua. Invece non avevo bisogno di parlare italiano per capire il vostro cinema: questa è la prova di un dialogo universale».

Cosa ha pensato per i David?
«L’idea, nell’anno della 70ª edizione, è quella di celebrare il lavoro di tutti, non solo le grandi star, ma anche gli artigiani che rendono possibile questa magia. Non è la solita ospitata del cantante che viene per fare promozione, ma sarà uno show poetico, elegante, curato».

Con lei sul palco c’è Elena Sofia Ricci.
«Ha un’energia favolosa, è intellettuale, però emozionalmente molto accessibile. È toccante, è una donna forte, però anche una ragazza terribile. Tante qualità che rendono impossibile incasellarla. E poi è favolosamente diva».

Lei è un divo?
Risposta immediata: «No». Ripensamento: «Dipende, io cambio: nella vita di tutti giorni è un conto, sono “normale”, quando salgo sul palcoscenico invece mi trasformo totalmente, come se fosse un rito spirituale. E in effetti lo è».

Una volta ha detto che «anni e anni di vita pubblica ti fottono la mente». Lo pensa ancora?
«Certo che lo penso, lo vediamo sempre intorno a noi. La Fame Culture, la cultura della fama, è una cultura tossica. E noi lo sappiamo e ci giochiamo in maniera non sana, perché siamo coscienti di quello che stiamo facendo sui social, con i media o davanti ai paparazzi. So che nel mio lavoro c’è una parte commerciale, ma è la parte artigianale, artistica, quella che preferisco. Ed è la parte che mi regala la stabilità mentale: l’artigianato è una cura per gli aspetti più superficiali, ti preserva dallo sguardo degli altri, da chi non ti conosce».

Voi artisti vivete una vita scissa: le luci del palco, l’ombra di tutti i giorni.
«C’è un contrasto molto forte fra la mia vita, la mia anima e la mia energia quando sono sul palco, davanti a 50mila persone, e quando scendo dal palco. Solo, davanti al pianoforte o alla scrivania, mi sento una merda: sarò capace di creare qualcosa di nuovo?».

Ha iniziato prestissimo, a 8 anni, un’infanzia diversa dalla norma: sente che in un certo senso le è stata rubata?
«No, no. Io ho avuto l’infanzia la più bella del mondo, perché andavo a scuola, ma era una merda: mi hanno cacciato da scuola, per sette mesi non ho parlato, non sapevo leggere, non sapevo scrivere. Così ho cominciato a cantare e sono stato catapultato a Covent Garden in una scenografia di David Hockney. Mi sono ritrovato in queste scatole magiche dove il mondo diventava un’altra cosa. Poi sono tornato a scuola, però sapevo che avevo un’altra vita, avevo altre vite. E andavo anche tanto al parco, ero ossessionato con il parco e con le anatre; giocavo con le anatre. Tutte queste diverse vite mi hanno permesso di mantenere la mia fantasia e la mia immaginazione integre: erano credibili perché io lavoravo già con adulti che creavano mondi paralleli pieni di fantasia, intessuti di diversi colori, forme, rumori, musiche. E quello era un lavoro. La musica mi ha salvato la vita».

Cosa ha preso dalle sue mille «nazionalità»? Gli Stati Uniti?
«La parte newyorkese è la mia parte dritta, quella pratica, che non ha paura di parlare di budget, di soldi, di sporcarsi le mani per trovare soluzioni».

L’Inghilterra?
«Ho fatto mia la disciplina di continuare a nutrirmi. L’educazione inglese ti fa sentire sempre ignorante e dunque devi continuare a leggere, ad ascoltare, a scrivere».

La Francia?
«Il gioco delle parole: l’arte della conversazione e del dibattito. È uno dei pochi Paesi dove mi ritrovo in cene dove c’è un ministro di sinistra, un ministro di destra, un gay, un eterosessuale, un autore di teatro, un amico chef. Urliamo, litighiamo, ci insultiamo, ridiamo, mangiamo, beviamo. Alcuni dopo vanno a scopare».

Il Libano?
«Da lì ho preso il colore, l’emozione, l’alma, una sorta di dolce follia un po’ melancolica».

Cosa le piace dell’Italia?
«Mi piace che in contesti come la televisione puoi mantenere la poesia. In tv c’è anche il trash, però se vuoi comunicare con poesia e intelligenza c’è una maniera di farlo e c’è un pubblico che ascolta».

La prima immagine che le viene in mente di «X Factor»?
«Proprio il primo giorno. Simona Ventura mi ha fatto un monologo di 10 minuti e io che non parlavo ancora italiano non ho capito neanche il 10%: dicevo sì e lei mi guardava e pensava fossi idiota. A destra c’era Elio, che non conoscevo, travestito da vecchio mago, con la barba fino al pavimento, che non diceva un cazzo. A sinistra Morgan, in piedi, che spiegava qualcosa con un libro di Dante in mano. E io mi sono detto: cazzo, perché ho accettato?».

29 aprile 2025

29 aprile 2025

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