
Non si aspettava più di vincerlo, il Nobel, Mario Vargas Llosa. Lo scrittore peruviano, scomparso all’età di 89 anni, era stato in passato tra i papabili, ma sapeva di essere diventato da tempo un personaggio anomalo, quasi indecifrabile rispetto agli schemi mentali in voga. Ma come, un latino-americano impegnato sul terreno politico, convinto di dover fare qualcosa per il riscatto della propria gente dalla povertà, e al tempo stesso ammiratore di Margaret Thatcher e di alcuni degli economisti «neoliberisti» colpevoli, secondo la narrazione più diffusa, di ogni sofferenza sul nostro pianeta? Tutto suggeriva di tenerlo a debita distanza…
Eppure nel 2010 la giuria dell’Accademia di Svezia scelse di premiarlo. Per la qualità straordinaria della sua prosa, per il modo in cui aveva saputo scavare nell’animo umano, per l’audacia sperimentale degli intrecci narrativi. Ma forse anche perché quell’anomalia ideologica un certo fascino lo aveva, in quanto rifletteva una profonda libertà intellettuale. Sottrattosi all’abbraccio oppressivo della sinistra dogmatica, Vargas Llosa non si era certo abbandonato a quello della destra, di cui aveva anzi criticato duramente le derive populiste.
Il fatto è che quell’elegante signore sudamericano era allergico ad ogni forma di conformismo, a quello che chiamava «il richiamo della tribù», cioè la tendenza, innata nell’uomo, a sacrificare il proprio senso critico in nome della rassicurazione garantita dall’orientare il proprio giudizio sulla falsariga dell’ambiente a cui si appartiene. Questo Vargas Llosa davvero non lo aveva fatto mai, anche quando si era calato nell’agone politico e candidato a presidente del proprio Paese, uscendo sconfitto, nel 1990, per mano del populista autoritario, futuro dittatore, Alberto Fujimori. Un impegno, nato sull’onda dell’opposizione alla politica dirigista del precedente capo dello Stato, Alan García, che lo scrittore ricordava come faticosissimo e frustrante.
Nato il 28 marzo 1936 ad Arequipa, Perù, in una famiglia facoltosa, lo scrittore non aveva conosciuto il padre Ernesto Vargas Maldonado fino all’età di dieci anni. I genitori infatti si erano separati quando Mario era ancora piccolissimo e poi a lui era stato detto, per non dovergli spiegare la verità, che il papà era morto. Così la riconciliazione tra i due coniugi era stata per il bambino un evento sbalorditivo, senza contare che poi il padre aveva cercato di ostacolare in tutti i modi la sua vocazione letteraria, che si era manifestata sin dalla prima adolescenza.
A un certo punto, a soli quattordici anni, Mario era stato iscritto all’accademia militare peruviana Leoncio Prado, dove la disciplina era durissima. Un’esperienza pesante, che si riflette nel suo primo romanzo La città e i cani
, uscito nel 1963, ma anche formativa. In quei due anni passati sotto il rigido regime dell’accademia, raccontava Vargas Llosa, aveva imparato a conoscere un Perù diverso da quello borghese che era abituato a frequentare, poiché aveva incontrato anche figli di famiglie molto povere, che vedevano nella carriera militare un’occasione di riscatto. Si era formato così una coscienza sociale, di cui le sue opere recano forte l’impronta.
Comunque la vocazione intellettuale del ragazzo alla fine aveva prevalso sull’opposizione del padre. Nel luglio 1952, quando Vargas Llosa era ancora sedicenne, ma già collaborava con la stampa, un teatro aveva messo in scena la sua prima opera, un dramma teatrale intitolato La fuga dell’Inca. Siamo in un periodo molto difficile per il Perù, governato fino al 1956 dalla dittatura militare di Manuel Odría, che impone nel Paese un clima di plumbea repressione. È l’atmosfera soffocante che si respira in un altro romanzo di Vargas Llosa, ricco di spunti autobiografici e da lui stesso considerato il più importante, Conversazione nella Cattedrale, pubblicato a Barcellona nel 1969.
C’è molto dell’autore nel personaggio del giornalista Santiago Zavala (detto Zavalita), irrequieto, in rotta con la famiglia di origine, intristito dalla condizione oppressiva in cui si trova un Perù segnato da pesanti disuguaglianze e dalla mancanza di libertà, in preda all’incuria e alla corruzione. Attorno a lui si muove un nugolo di figure dal profilo vario, alcuni partecipi del sistema dispotico, altri vittime, mai però del tutto innocenti, di una situazione che appare senza uscita, tra miseria diffusa e serpeggiante razzismo. Significativo che la Cattedrale di cui si parla nel titolo sia in realtà un locale popolare piuttosto malfamato, soprannominato così per la forma della sua porta d’ingresso. Per questo in italiano è stato tradotto anche come C
onversazione nella «Catedral»
, per mettere subito tutto più in chiaro.
In precedenza Vargas Llosa si era sposato nel 1954, diciottenne, con una trentenne boliviana (oltretutto sua zia acquisita), Julia Urquidi, che poi sarebbe divenuta la protagonista del romanzo Zia Julia e lo scribacchino. E nel 1958 aveva lasciato il Perù per l’Europa: prima Madrid, poi Parigi, quindi Londra, dove appunto aveva scritto Conversazione nella Cattedrale. Ma già nel 1967 aveva ottenuto un importante riconoscimento letterario (il primo di una lunga serie), il premio venezuelano Rómulo Gallegos, con il romanzo La Casa Verde. E nel 1964 aveva divorziato da Julia per sposare l’anno dopo una sua cugina, Patricia Llosa, dalla quale avrebbe avuto tre figli.
In questa fase lo scrittore è schierato decisamente a sinistra. Anche se la sua esperienza giovanile nelle file comuniste si era interrotta molto presto, è un fervente sostenitore, assieme all’amico colombiano Gabriel Gárcia Márquez, della rivoluzione cubana, nella quale vede un’anima libertaria estranea al «socialismo reale» di stampo sovietico.
Poi però Fidel Castro aveva accentuato la repressione contro dissidenti e omosessuali, aveva approvato l’intervento sovietico in Cecoslovacchia per schiacciare la Primavera di Praga, nel 1968. E quindi c’era stato il caso di Heberto Padilla, poeta arrestato e costretto a una umiliante autocritica pubblica nel 1971 per aver espresso critiche bollate come «controrivoluzionarie» dal regime dell’Avana. Vargas Llosa si era allora fatto avanti in prima linea, promuovendo un appello contro la persecuzione che aveva ottenuto le adesioni di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, dello scrittore argentino Julio Cortázar, degli italiani Umberto Eco e Alberto Moravia.
Non aveva aderito invece Gárcia Márquez, con il quale i rapporti si erano progressivamente raffreddati, fino all’episodio clamoroso del pugno che Vargas Llosa aveva sferrato al colombiano nel 1976 a Città del Messico, pare per ragioni private. Un caso sul quale nessuno dei due letterati aveva voluto tornare.
Rotti i ponti con la sinistra anticapitalista, Vargas Llosa era approdato su sponde liberali. Era favorevole al mercato, alla competizione, alla libera impresa. In nome di quei valori aveva condotto la sua sfortunata battaglia politica in Perù, per poi trasferirsi in Spagna e prendere la cittadinanza di quel Paese. Anche il matrimonio con Patricia era finito e lo scrittore si era legato alla modella filippina Isabel Preysler.
Fino all’ultimo Vargas Llosa era rimasto una voce importante nel dibattito pubblico a livello internazionale. Crollato il comunismo, aveva rivolto i suoi strali contro il nazionalismo, il populismo, la xenofobia anti-immigrati. Aveva criticato la «rivoluzione» venezuelana di Hugo Chávez, la Brexit e il secessionismo catalano, contro il quale — lui, così legato a Barcellona — era sceso personalmente in piazza.
Prolifico anche in tarda età, Vargas Llosa aveva continuato a pubblicare saggi e romanzi. Spesso sorprendenti, per chi lo aveva catalogato come un conservatore, se non addirittura un reazionario. Nel libro Il sogno del Celta
, aveva rievocato Roger Casement, coraggioso patriota irlandese che aveva denunciato gli orrori del colonialismo belga in Congo. In Tempi duri
(Einaudi, 2020) aveva ricordato le malefatte della Cia e delle industrie nordamericane in Guatemala negli anni Cinquanta.
Fondamentalmente ottimista, anche se nelle sue opere non manca certo una vena malinconica, guardava con fiducia alla globalizzazione e ai progressi della democrazia in America Latina. Assai più critico era invece sulla sorte della cultura. Temeva la superficialità e la banalizzazione, diffidava delle tecnologie digitali, di fronte alle quali riemergeva la sua vena romantica: «Fatico a immaginare — aveva scritto Vargas Llosa — che le tavolette elettroniche, identiche, anodine, intercambiabili possano dispensare quel piacere tattile, impregnato di sensualità, che offrono i libri di carta a certi lettori».
14 aprile 2025 (modifica il 14 aprile 2025 | 07:30)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
14 aprile 2025 (modifica il 14 aprile 2025 | 07:30)
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