
Marco Minniti, ex ministro dell’Interno del governo Gentiloni, è presidente della Med-Or Italian Foundation, che rappresenta il «sistema Paese» nel rapporto con Medio Oriente e Mediterraneo «allargato». Nel governo c’è chi parla di lui, che ideò gli accordi con la Libia sui migranti — di cui non vuole parlare da quando si è dimesso «senza rimpianti» da parlamentare — e lavora all’attuazione del Piano Mattei, per un ruolo nella ricostruzione di Gaza.
Rappresenterà l’Italia nel «board» per Gaza?
«Non mi risulta. Non so assolutamente niente. I nomi non sono mai importanti. Quel che è importante è il ruolo dell’Italia».
L’accordo tra Israele e Hamas regge, o scricchiola?
«Il piano in 20 punti è una grande opportunità, che sembrava impensabile. Il primo pilastro ha consentito di raggiungere tre obiettivi di straordinaria importanza. Il cessate il fuoco dopo 70 mila morti a Gaza, il ritorno a casa degli ostaggi e il fatto che sono ripartiti gli aiuti, in una realtà dove si era usata la fame come arma di guerra».
La seconda fase non presenta molti rischi?
«In questa fase di transizione può sempre avvenire una provocazione, una rottura. Per cui bisogna accelerare al massimo la realizzazione del secondo pilastro del piano, anche sfruttando l’onda di entusiasmo che si è creata con la visita di Trump in Israele e con gli incontri di Sharm».
Lo «show» di Trump è solo luci, o anche ombre?
«Trump ha messo in gioco se stesso, per due ragioni. Doveva uscire dallo scacco politico e diplomatico di Anchorage, dove a Ferragosto ha incontrato Putin e il cui tappeto rosso, col moltiplicarsi degli attacchi contro l’Ucraina, è diventato nero».
La seconda ragione?
«Trump con Israele ha potuto mettere in campo un potere decisivo, per il rapporto personale con Netanyahu e perché gli Usa sono il loro principale fornitore di armamenti. Senza il diretto coinvolgimento di Trump non avremmo smosso le acque. E non ha accettato di dirigere il board di transizione per vanità, ma perché chiamato dai Paesi arabi. Una gigantesca responsabilità, che lo espone enormemente».
Ha fatto bene Meloni ad aspettare oltre due anni prima di «condannare» Netanyahu per la carneficina a Gaza e a non seguire Macron e Sánchez sul riconoscimento della Palestina?
«Meloni ha costruito con Trump una relazione speciale e non era scontato, anche per il rapporto forte che aveva con Biden. Le battute fatte in pubblico da Trump non sono casuali. E un ruolo ha giocato l’approccio italiano al riconoscimento della Palestina».
Vuol dire che ha pagato la cautela del governo, contestata con forza dalle opposizioni nelle piazze pro-Pal?
«Nel momento in cui gran parte dei Paesi Ue avevano deciso di riconoscere la Palestina, l’Italia non ha puntato a isolare Trump, pur non avendo mutato la linea storica “due popoli due Stati”. E lui penso abbia apprezzato».
E adesso, che ruolo può svolgere l’Italia?
«Può essere apripista, aiutare la Ue a recuperare un evidente ritardo politico e a diventare protagonista in un processo di ricostruzione che fa tremare le vene. Ma serve una forza di stabilizzazione militare a Gaza, con la spina dorsale dei Paesi arabi e con un mandato Onu, senza la quale è impossibile pensare al disarmo di Hamas e al ritiro delle forze Israeliane».
La premier otterrà i voti delle opposizioni, quando in Parlamento si voterà per l’invio di militari italiani?
«È importante che l’Italia possa partecipare con un mandato pieno del Parlamento. Ed è importante che il 7 novembre a Roma verrà Abu Mazen per incontrare Meloni e Mattarella. All’Onu il presidente dell’Anp ha detto che il futuro della Palestina sarà senza Hamas».
Vede legami tra Piano Mattei e Gaza?
«Un piano di ricostruzione ambizioso, che impegnerà almeno un decennio, deve vedere la messa in campo di un progetto italiano coordinato dal governo, inserito in un grande progetto europeo. I Paesi arabi avranno un ruolo fondamentale e dovrà avere un ruolo l’Italia, storicamente percepita come amichevole e affidabile. I palestinesi non hanno pregiudizi e sembra che Israele sia d’accordo sull’entrata dell’Italia nel board di transizione».
Perché è così importante che il nostro Paese, marginale fino a pochi giorni fa, possa fare la sua parte per la rinascita di Gaza?
«Renderebbe evidente che la prospettiva di tutto il percorso è la costruzione di uno Stato palestinese, che riconosca Israele. Punto cruciale per una pace stabile e per garantire la sicurezza di entrambi dopo che, in questi due anni, si è toccato il fondo».
La ricostruzione è un colossale business per aziende come Leonardo, Eni, Cdp, Enel, Eni e Fincantieri, coinvolte in Med-Or?
«Noi possiamo giocarci la presenza dei grandi player economici italiani, dall’energia alle rinnovabili. Il tema è costruire le condizioni perché la popolazione di Gaza rimanga a Gaza, l’opposto del Piano Riviera per fortuna accantonato. Sarebbe straordinario lavorare con i palestinesi per ricostruire un’autosufficienza alimentare, dopo che la fame è stata utilizzata come arma».
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16 ottobre 2025
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