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Manfredi smentisca le ambizioni da premier

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Lasciamo stare almeno per una settimana (fa caldo, è agosto, siamo stufi) la telenovela delle Regionali. Alla quale si è aggiunto di recente il centrodestra, dove è partita una gara di sondaggi clandestini per affossare il candidato dell’altro (Cirielli di Fratelli d’Italia) e promuovere un candidato «indipendente», che poi indipendente davvero non è (e neanche tanto popolare). Più interessante mi sembra invece la voce, probabilmente nata anch’essa a livello partenopeo, di una possibile ambizione nazionale di Gaetano Manfredi.

La ipotesi che circola sempre più spesso nei retroscena sul centrosinistra prevede che il sindaco emerga al fotofinish come terzo incomodo nella competizione che ormai sembra già scontata tra Elly Schlein e Giuseppe Conte per la candidatura a premier del «campo largo».
L’alleanza di «tutti contro Giorgia», che pure è l’ipotesi più probabile quando si andrà alle elezioni, sarà infatti una vera e propria Armata Brancaleone dal punto di vista politico. Pd e M5S o sono tra di loro incompatibili sul piano programmatico, oppure sono entrambi incompatibili con la collocazione internazionale dell’Italia in Europa e nella Nato. Del resto, non lo diciamo noi: lo dice ogni volta che può lo stesso Conte, che un’alleanza organica non è praticabile.
Ma il prossimo parlamento eleggerà il nuovo Presidente, e i partiti dell’opposizione sono uniti e determinati almeno in questo: impedire che, per la prima volta nella storia della Repubblica, il centrodestra possa eleggersi da solo un suo Capo dello Stato. Anche se dunque dovessero fallire nel formare un governo stabile in caso di vittoria, anche se quel governo durasse comunque lo spazio di un mattino, come è già successo ai due esecutivi guidato da Prodi in passato, varrebbe comunque la pena di aver conquistato la maggioranza in parlamento anche al solo fine di vincere la votazione cruciale della legislatura, conservando così il Quirinale.
Perciò, storto o morto, il campo largo si farà. E qui scatta il problema premiership. La legge elettorale attuale non obbliga la coalizione a indicare il nome del candidato premier. Ma nel centrodestra vale la regola che lo esprime chi dei tre partiti avrà avuto più voti. Questa saggia norma non scritta, e in realtà alquanto democratica, non vale invece dall’altra parte. Dove il partito minore, cioè i Cinquestelle, rifiuta un’alleanza organica proprio per non dovervi sottostare; e difficilmente potrebbe del resto accettare le primarie di coalizione, visto che nega si tratti di una coalizione. Così Conte può continuare ad aspirare a un ritorno a Palazzo Chigi, per lui un’ossessione dal giorno che ne è stato sloggiato. Ma soprattutto, realistica o meno che sia la sua speranza, può continuare a farlo credere ai suoi elettori, che altrimenti difficilmente darebbero il loro voto per portare a Palazzo Chigi la leader del Pd, partito da sempre odiato e comunque considerato alternativo.
Conte può dunque bloccare la candidatura Schlein (e lo farà, sta in questo il suo potere negoziale); ma non può imporre la sua candidatura.
Ancor di più il problema si porrebbe se, come è molto probabile, Meloni cambierà la legge elettorale prima del voto, per eliminare i collegi uninominali e ridurre così le chance di vittoria del centrosinistra. Reintroducendo il proporzionale con premio di maggioranza, sarà infatti necessario formare le coalizioni prima del voto e indicare sulla scheda il nome del candidato premier.
Ecco quindi che, al solito, il centrosinistra avrà bisogno di un terzo uomo (o terza donna) da mandare davanti all’elettorato al posto di uno dei due contraenti del patto elettorale. Meglio se costui, o costei, possa anche apparire una espressione del centro riformista, e sia in ogni caso un moderato, qualità che ormai sfugge a entrambi i partiti, Pd e M5S, e a entrambi i leader. Ed ecco dove spunta Manfredi.
Pur essendo un sostenitore della prima ora dell’accordo democratici-pentastellati, che a Napoli governano insieme, il sindaco infatti è in origine un tecnico, un professore universitario, un uomo del fare, che può essere esibito come la faccia meno ideologica e dunque più rassicurante del campo largo. Le sue qualità verrebbero rafforzate dal consenso della lobby dei sindaci, della cui Associazione nazionale, l’Anci, ha per tempo e non a caso preso la guida.

Questo dicono i retroscena. Ma attenzione: non è mai così facile che i politici lascino il passo ad altri. Il potere è il core business di quel mestiere. Faranno di tutto per ottenerlo. Se non per sè, per qualcuno che possono controllare. Manfredi è un uomo di mondo, e lo sa. Ma non crediamo che lo sia fino al punto da mettersi al servizio di altri. In questo caso, farebbe ben presto la fine di Prodi, un leader senza partito affossato dai partiti.
In secondo luogo, la suggestione di sfruttare la popolarità di un sindaco a livello nazionale non ha mai dato grandi risultati. Rutelli, che pure era al colmo dei consensi da primo cittadino di Roma, perse malamente contro Berlusconi alle politiche del 2001. I sindaci sono noti nella loro città, molto meno nel Paese. Suscitano anzi gelosie e avversioni di tipo campanilistico (vi immaginate un veneto che vota per un napoletano?). E in fin dei conti non sono considerati pronti a passare dalla gestione di un bilancio comunale e dei vigili urbani a quella dell’economia nazionale e della politica estera. A ragione, aggiungo io.
Ma in ogni caso, anche se Manfredi fosse convinto alla fine di farcela, un consiglio sentiamo di darglielo: allontani fino all’ultimo momento il calice che gli viene offerto, rassicuri i suoi elettori che non lascerà il già gravoso impegno di guidare Napoli per una carriera politica, smentisca con forza ogni ipotesi di candidatura, e così facendo terrà tranquilli anche i politici pronti a mettergli tutti i bastoni che possono tra le ruota, non appena la sua candidatura emergerà.
Meglio, molto meglio, che non lo vedano arrivare.

3 agosto 2025

3 agosto 2025

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