
Mark Razvozov ha 14 anni e un viso dolce da bambino. A Roma, nell’ambasciata ucraina, si stringe accanto a sua madre Yulia Dvornychenko da cui è stato separato quando ne aveva nove nel 2021, periodo durante il quale i russi lo hanno sottoposto al lavaggio del cervello demonizzando il suo Paese. Quando i giornalisti gli chiedono cosa vuol fare da grande lui dice alla mamma di tapparsi le orecchie: «Voglio andare a combattere per l’Ucraina, il mio Paese» rivela con un filo di voce. E a chi gli sta intorno si inumidiscono gli occhi.
Il ragazzo e sua madre fanno parte della delegazione di bambini, genitori e nonni ucraini che, guidata dalla vicepremier del governo Zelensky Iryna Vereshchuk, venerdì incontrerà il Papa.
Kiev ha chiesto a Leone XIV, con una lettera firmata dal presidente ucraino, di rendere ufficiale il suo ruolo nel facilitare i negoziati per il ritorno dei bambini e dei civili ucraini rapiti dalla Russia durante la guerra. «Abbiamo bisogno di meccanismi formali – ha spiegato Vereshchuk alla stampa – perché oggi Mosca approfitta di una zona grigia per tenere imprigionati circa 20mila bambini e quando noi li localizziamo loro li spostano e gli cambiano nome. Finora siamo riusciti a rimpatriarne solo 1700. Per questo abbiamo chiesto aiuto anche a Giorgia Meloni che oltre ad essere la premier italiana, è anche una donna e una madre».
Veronika Vlasova, 16 anni, era stata portata in Russia dalla zia per fuggire da Kharkiv nel febbraio del 2022 quando Mosca aveva invaso l’Ucraina ma la morte della congiunta l’ha fatta finire in un orfanotrofio dove è stata sottoposta a bullismo, interrogatori della polizia, visite psichiatriche e ginecologiche in seguito a una falsa denuncia di stupro volta a non farla tornare a casa. Tutti i suoi tentativi di fuga sono falliti finché nel maggio 2023 è riuscita a riabbracciare la nonna: «Ci costringevano a cantare l’inno russo e a fare l’alzabandiera – racconta oggi, gli occhi vispi e aperti sul mondo -, volevano che scrivessimo lettere di appoggio ai soldati russi al fronte ma io mi sono sempre rifiutata. E poi ci trattavano male, ci urlavano, ci consideravano persone inferiori».
Accanto a lei è seduta Marta Hlazkova, 18 anni, truccatissima, lo sguardo cupo: «Io sono stata fortunata perché sono riuscita a fuggire. Vivevo a Donetsk e a scuola ci bombardavano con la propaganda, ci facevano incontrare i soldati russi e li glorificavano. Volevano cancellare la nostra identità. Mi sentivo prigioniera nella mia stessa città, non appena sono diventata maggiorenne sono riuscita a fuggire».
Non è andata così bene ad Olena Yuzvak direttrice di una clinica a Hostomel, una città 30 km a nord di Kiev, occupata dai russi nel 2022. La dottoresssa fu catturata insieme alla sua famiglia, il marito fu ferito e deportato nel Kursk ma poi fu liberato nell’aprile dello stesso anno grazie ad uno scambio di prigionieri mentre il figlio Dymtro è rimasto nelle mani dei russi fino a poche settimane fa: «Ci hanno catturato mentre eravamo in casa, senza alcun motivo – dice -, oggi sono grata di essere qui a raccontare la mia storia e mi sembra incredibile poter dormire senza allarmi che suonano di notte!».
Liudmyla Siryk ha intrapreso un viaggio coraggioso nel Donetsk occupato per liberare il nipote Oleksandr Radchuk, 15 anni, che ora siede accanto a lei con fare serio e intimidito. Nel marzo del 2022 il bambino era stato ferito durante il bombardamento di Mariupol, lui e la madre erano poi portati a Donetsk dove i russi li avevano separati. Il ragazzino era finito in ospedale dove era stato curato malissimo mentre della madre non si è più saputo nulla. «Mio nipote mi chiamava – racconta la nonna – e diceva: “Vieni a salvarmi, portami a casa” ma non sapevamo dove fosse. Così mi sono rivolta al governo ucraino, compreso Zelensky, l’altra mia figlia mi ha aiutato a scrivere la lettera e loro sono riusciti a trovarlo, mi hanno detto cosa dovevo fare e come potevo andarlo a prendere attraversando i Paesi Baltici. Sono arrivata e lui mi stava aspettando, quando l’ho abbracciato il mio cuore ha ripreso a battere».
Yulia Dvornychenko guarda orgogliosa il figlio Mark, non riesce ancora a credere di aver riunito la famiglia a Kiev dopo anni di peripezie. «Noi vivevamo a Torez, vicino Donetsk, quando nel 2021 io e mio marito siamo stati arrestati in casa alle cinque del mattino con l’accusa di essere delle spie ucraine dagli uomini dell’autoproclamata Repubblica Popolare. In prigione sono stata costretta a dichiarare il falso, cioè che ero una spia, perché altrimenti avrebbero messo i miei figli in orfanotrofio. Sono stata rilasciata solo nel 2022 grazie ad uno scambio di prigionieri». Un anno dopo, proprio grazie all’aiuto di Iryna Vereshchuk, è riuscita a far tornare i suoi due figli a Kiev. «La prima notte quando è suonato l’allarme – racconta la donna – Mark mi ha chiesto cosa fosse. Io gli ho risposto: “Andiamo nel rifugio e poi ti spiego tutto”. È stato allora che ha capito di aver sentito solo bugie da parte russa e che l’Ucraina non era quella che gli avevano raccontato».
20 novembre 2025
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