Ulrike Malmendier, 52 anni, 52 anni, un marito italiano e tre figli, studi ad Aachen, l’antica Aquisgrana, fa parte del Consiglio degli esperti economici del governo tedesco. E’ lei che ha consigliato a Berlino di cominciare a pianificare la pensione dei bambini già dai 6 anni di età, ma apre anche agli Eurobond per rilanciare la crescita in Europa («non sono un tabù, ma vanno disegnati bene»). In questa intervista, inoltre, parla dei conti tedeschi (ancora in stallo ma siamo alla svolta), vede nuovi segnali di inflazione in Europa (anche core) perciò «meglio aspettare sui tassi»; difende il Green Deal, avvertendo piuttosto che l’auto europea ha perso tempo prezioso; giudica l’intesa sui dazi con gli Usa «il migliore possibile ma non un buon accordo»; e si dice sorpresa dal no del cancelliere Merz all’operazione di Unicredit su Commerzbank.
Dove va l’economia tedesca? Un altro anno di recessione o stagnazione?
«Dai numeri vediamo un lento ritorno alla crescita già durante quest’anno e poi in modo misurabile nel 2026. Certo, nel breve ci sarà ancora stagnazione — i dati del secondo trimestre sono stati rivisti al ribasso — ma questo può essere il momento della svolta. Le misure necessarie per tornare a crescere nel lungo termine, in Germania come in Europa, si stanno finalmente mettendo in campo».
Quali misure?
«Non possiamo più contare sulle industrie che sono state il motore della crescita dal Dopoguerra. Servono nuove tecnologie e la capacità di attrarre imprese innovative, orientate al futuro. Per questo occorrono mercati finanziari più solidi, maggiori risorse e più venture capital».
Ad esempio?
«In Germania, come Cosniglio economico abbiamo lanciato l’idea di un fondo pensione che parte già a 6 anni. È un “portafoglio giovani” per coinvolgere le famiglie fin dall’età scolare, unendo educazione finanziaria e investimenti diversificati. È l’unico modo per far capire concretamente che il lungo periodo è una leva di crescita. Non basta insegnarlo sui libri: serve un’esperienza diretta».
Tutti invocano l’Unione dei mercati dei capitali, però continua a non decollare. Perché?
«L’Europa resta frammentata: niente diritto fallimentare comune, forme societarie comuni, un quadro unico per startup e Pmi. Tutti riconoscono l’utilità dell’armonizzazione, ma poi difendono la propria normativa. È lì che ci si blocca. E ci si è concentrati troppo sulla cartolarizzazione, che aiuta le banche ma non la crescita. Quello che serve davvero è venture capital e più partecipazione dei cittadini ai mercati azionari. In Germania, come Consiglio economico abbiamo lanciato l’idea di un fondo pensione che parte già a 6 anni. È un “portafoglio giovani” per coinvolgere le famiglie fin dall’età scolare, unendo educazione finanziaria e investimenti diversificati. È l’unico modo per far capire concretamente che il lungo periodo è una leva di crescita. Non basta insegnarlo sui libri: serve un’esperienza diretta».
La Germania, come l’Italia, è un grande esportatore. L’accordo Ue-Usa sui dazi è stato davvero il miglior risultato possibile?
«Forse sì, vista la nostra attuale dipendenza dagli Stati Uniti, anche sul piano della sicurezza. Ma non è un buon accordo: un dazio del 15% tra Paesi alleati nel XXI secolo è altissimo. È una tassa sui consumi che pagano tutti, compresi gli americani. È un po’ di respiro, ma senza la certezza che serve alle imprese. Ecco perché dobbiamo usare questa finestra per rafforzare il mercato unico e l’Unione dei mercati dei capitali».
Sull’export pesa anche l’indebolimento del dollaro. Quali conseguenze vede?
«Potrebbe indebolirsi ancora: i modelli prevedevano un calo persino maggiore. Questo rischia di disturbare ulteriormente il commercio transatlantico. La risposta è diversificare: più scambi all’interno dell’Ue e accordi come il Mercosur. La pandemia e la crisi energetica avrebbero già dovuto insegnarcelo».
L’inflazione pare domata, ma i tassi restano alti. La Bce dovrebbe tagliare ancora?
«La Bce sembra aver vinto la battaglia, anche se alcuni dati recenti mostrano un leggero rialzo, pure dell’inflazione “core”. Ma gli effetti dei dazi non si sono ancora sentiti appieno: potrebbero persino abbassare i prezzi in Europa per via dell’offerta deviata dalla Cina. Se fossi nel Consiglio direttivo della Bce sarei per il “wait and see”: troppa incertezza per decidere ora. E non c’è una scelta catastrofica tra tagliare o attendere».
L’industria automobilistica, un tempo orgoglio tedesco, ha ancora futuro davanti a concorrenza cinese, Green Deal e dazi?
«Abbiamo perso il momento giusto per investire su ricerca e produzione elettrica. È un classico: chi domina una tecnologia fatica ad abbandonarla. Ma la storia non è finita: sulle batterie c’è ricerca promettente in Germania, anche sulle alternative al litio, come il sodio. E l’integrazione di software e intelligenza artificiale può diventare un punto di forza europeo. però non darei la colpa al Green Deal: è un capro espiatorio, se avessimo virato prima sull’elettrico saremmo più avanti».
Dall’economia degli Stati Uniti arrivano segnali contrastanti. Lei insegna all’università di Berkley. Qual è la sua impressione?
«A livello globale vedo tendenze di crescita, forse più in Cina che negli Usa, anche se sotto le attese. Negli Stati Uniti, dopo un primo trimestre anomalo per le importazioni anticipate, si torna a un equilibrio più stabile. Ma i dazi complicano anche lì investimenti e catene produttive integrate. Gli effetti negativi si vedranno nei prossimi trimestri, anche sull’inflazione».
Il governo Merz farà davvero ripartire gli investimenti in Germania?
«Le imprese hanno frenato gli investimenti citando l’incertezza politica più dei costi dell’energia e del lavoro. Con il nuovo governo è arrivato un po’ di ottimismo, ma in parallelo l’incertezza globale — soprattutto con l’arrivo di Donald Trump alla presidenza negli Usa — è aumentata, quindi il saldo resta alto».
Qual è il rischio più grande?
«In Germania la mia preoccupazione è che i grandi fondi stanziati per difesa e infrastrutture finiscano in spesa corrente o sussidi temporanei invece che in investimenti produttivi e non si inneschi il moltiplicatore capace di stimolare gli investimenti privati (l’80-90% del totale). Qualche segnale positivo nel settore costruzioni c’è, sono cautamente ottimista, ma bisogna fare attenzione. E poi: non possiamo farcela da soli. Serve davvero il grande mercato Ue — 450 milioni di consumatori — per scalare nuove tecnologie e diventare un player globale tra Usa e Cina. Se non si riducono frizioni e non si armonizza, sono più pessimista».
E’ favorevole agli Eurobond per rilanciare gli investimenti europei?
«Servono strumenti comuni di finanziamento, soprattutto per difesa e innovazione. Ma devono essere progettati bene, con regole chiare, senza colpevolizzare i Paesi che hanno i conti più solidi e un rating più forte. Non è questione di sì o no, ma di come li disegniamo».
Il no del governo tedesco all’operazione su Commerzbank che segnale manda?
«Mi ha sorpresa. Non conosco tutti i dettagli, ma in linea di principio operazioni che creano campioni europei, innovazione e un po’ di scossa ai mercati dei capitali sono esattamente ciò di cui abbiamo bisogno».
10 settembre 2025 ( modifica il 10 settembre 2025 | 08:46)
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