
Come David Gilmour dei Pink Floyd e come i Simply Red. Sei serate consecutive (sold out) alla Royal Albert Hall portano Ludovico Einaudi nell’esclusivo olimpo di quelli che ci sono riusciti (solo Eric Clapton, lassù, con 24 concerti di fila è irraggiungibile). Il pianista e compositore si esibirà a Londra da domenica 29 a venerdì 4 luglio davanti a un totale di 30mila spettatori. «Ma non penso ai numeri, per me è un grande successo personale sentire che negli anni il pubblico mi ha seguito sempre più numeroso, con grande affetto. Londra poi per me è speciale: da un lato rappresenta un amore lontano, il panorama culturale della musica degli anni ‘60 e ‘70 è parte della mia formazione musicale; dall’altro i primi riconoscimenti sono venuti proprio dalla cultura british».
La sua musica è composta da accenni e melodie sospese che lasciano spazio all’immaginazione di chi ascolta, note classiche eppure familiari come il pop: che spiegazione si dà del suo successo? «Al di là del fatto che la mia musica possa avere una classificazione più complessa, credo sia immediato il sentimento che crea, la connessione a una corda emotiva che vibra con quella del pubblico».
Oltre 20 album pubblicati, distribuiti in più di 70 Paesi, Einaudi è il quarto artista italiano piu ascoltato al mondo su Spotify dopo Maneskin, Meduza e Laura Pausini. Sorride: «Lo ammetto: i Meduza non so chi sono. Di Laura Pausini ho il ricordo di qualche bella canzone come La solitudine e di una bellissima voce. Anche dei Maneskin mi è capitato di sentire qualcosa, ma senza voler esprime giudizi nessuno di loro rientra nelle mie playlist di ascolto». In quelle però c’è Beyoncé, di cui è appena andato a vedere il concerto. «Uno spettacolo stupefacente, che riflette sui valori della storia e dell’identità americana in un modo molto profondo. Uno show che affronta il tema della cultura nera, ma allo stesso tempo si appropria anche del simbolo della musica più bianca che ci può essere — il country — e lo trasporta dentro l’identità afroamericana. L’ho trovato un concerto a suo modo politico. Beyoncé è una regina assoluta, tiene il palco in modo incredibile con una voce che spazia attraverso tutti i generi in modo magistrale».
Si è esibito ovunque, c’è un posto dove le piacerebbe suonare? Su Marte con Musk, magari? «No, no, per carità. Eviterei di avere a che fare con quel personaggio… Non ho ambizioni di quel genere. Quando ho suonato sull’Artico ero spinto dalla causa ambientalista. Le mie scelte sono sempre animate da una motivazione etica o sociale, non tanto per mettere una bandierina in un luogo». Par di capire che nemmeno Sanremo possa essere il posto giusto per lui: «Non ho niente contro il Festival. Ma penso che non sia un contesto che ha senso per me, ho bisogno di tempi più lunghi, diversi dal ritmo televisivo, dai tre minuti e saluti». Rap o trap? «Nutro un enorme fastidio l’autotune, per quegli effetti che ormai omogeneizzano tutto. In generale preferisco il rap, con Eminem farei subito una collaborazione».
Paolo Sorrentino sostiene che il talento e la creatività nascono dal dolore: «Nella mia vita ho provato dolori che mi hanno fatto patire, e la musica sicuramente mi ha aiutato a metabolizzare queste sofferenze e a trasformarle in una condivisione di emozioni, di colori. Però per me la musica non è legata solo a quell’aspetto. Il viaggio artistico è una missione, ad un certo punto ho sentito come una chiamata, come un’urgenza di cui non potevo fare a meno. Penso che l’esperienza più vicina, l’unica paragonabile, sia quella della vita religiosa: la musica è l’espressione di tutte le mie aspirazioni, di tutte le mie visioni del mondo che contengono ogni cosa: l’aspetto spirituale ma anche quello più carnale. C’è tutto dentro la musica: c’è l’anima, il corpo, il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo».
27 giugno 2025
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