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Luca Zaia: «I miei 15 anni in mezzo al popolo. Così ho restituito l’orgoglio al Veneto»

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Luca Zaia ci fa accomodare nell’ufficio da cui domina il Canal Grande al piano nobile di Palazzo Balbi. La sala è sorprendentemente spoglia, non esattamente quella che ci si attenderebbe incontrando il presidente della Regione: pare che Zaia si sia seduto alla sua scrivania cinque minuti prima del nostro arrivo, invece è lì da 15 anni.

Ultimamente hanno iniziato a chiamarla «il doge». Le fa piacere?
«È avvenuto in modo abbastanza naturale. In questo appellativo c’è amarcord e identità, è un modo per rimarcare la nostra storia, per riannodare il filo che unisce questa epoca a quella della Serenissima».

Ha già indossato il corno dogale tempestato di gemme preziose che le hanno regalato i consiglieri della Lega?
«(Sorride) No, ancora non me l’hanno dato».

Il 7 aprile del 2010 lei entrò in questa stanza per la prima volta. Quel giorno si fece una promessa? E l’ha mantenuta?
«Quando uno fa l’amministratore nella testa ha mille progetti… ma io avevo un obiettivo, su tutti: restituire al Veneto l’orgoglio, dare a questa Regione lo standing che merita. E sì, penso di esserci riuscito. Oggi se lei parla con un veneto, che lo incontri qui, a Roma o in giro per il mondo, le dirà che è fiero delle sue origini, che è orgoglioso della sua terra».

Cosa significa per lei «essere veneto»?
«Nelle Memorie di Adriano, l’imperatore a un tratto dice: “L’impero, l’ho governato in latino; in latino sarà inciso il mio epitaffio; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto”. Ecco, sostituisca “greco” con “veneto” e avrà la risposta. La nostra identità è qualcosa che sentiamo dentro di noi e che lontano da qui non riescono a comprendere fino in fondo».

I risultati elettorali dicono che lei in questi anni è riuscito a creare con i veneti una sintonia senza eguali, incarnando in qualche modo i loro pregi ma anche i loro difetti. Come ci è riuscito?
«Io vengo dal popolo e il popolo questo lo riconosce. So cosa significa lavorare nell’officina del papà e sentirgli dire, quando arrivano le automobili dei notabili: “Corri subito a pulire i vetri dei signori”, anche se erano lì per una gomma bucata o il carburatore. So cosa significa crescere tra gente poco erudita, che non ha studiato, che si sente “sottomessa” anche se sta contribuendo a creare quello che chiameranno “il miracolo Nordest”. Gente che produce ricchezza eppure ha la sensazione che le manchi qualcosa. Io penso di aver rappresentato questo riscatto sociale, a cui ho dato corpo ogni giorno con una formula vincente».

Ce la riveli.
«Ho annullato le distanze. Tutti sanno dove trovarmi, tutti possono incontrarmi, tutti possono sottopormi una questione e io mi attivo per trovare una soluzione. I veneti sanno che sono qui, tra loro, non sto rinchiuso nel Palazzo. Sfido chiunque a dire che l’ho liquidato con una pacca sulla spalla e via, mi basta leggere un commento sui social network per aprire una pratica col direttore generale di una Usl. In questo Gentilini mi ha insegnato tanto».

Alcuni la vedono come un politico pragmatico, un amministratore di razza. Altri come un leader mediatico, un abilissimo comunicatore. Si guardi allo specchio: lei come si definirebbe?
«Un amministratore che sa raccontare molto bene ciò che fa. Chi non mostra, non vende. Ma chi non fa, ha poco da mostrare».

Sabato sera, nel chiudere la porta e spegnere la luce, avrà più gioie o più rimpianti?
«Le gioie sono state tantissime, il rimpianto uno soltanto: non essermi potuto ricandidare. E non è una questione di poltrona: questa scrivania, la vede, è vuota. Come sono arrivato, me ne vado, non ho il feticismo della carica. Ma mi fa male, lo dico sinceramente, incontrare tante persone che ancora mi manifestano il loro affetto e il loro consenso e non poter dire: si va avanti insieme».

Sua moglie non le ha mai chiesto di mollare, di cambiare vita?
«Quello delle mogli che si lamentano della vita del marito politico è una manfrina e io non faccio la parte. Mia moglie sa che questo è il mio lavoro e lo rispetta».

La sua insistenza nel voler fare il quarto mandato, però, a tratti è stata sorprendente. Sembrava non volersi rassegnare e in fondo è una regola che vale per tutti, non solo per Zaia.
«Non vale per tutti, vale per chi è eletto dal popolo: il presidente della Regione, il sindaco. Tutti gli altri, premier, ministri, deputati, senatori, possono ricandidarsi a vita e tutti zitti. Ed è un’offesa molto grave dire che io non mi posso ripresentare perché ho creato un centro di potere, si evoca il malaffare».

È indubbio che il presidente della Regione eserciti un potere, pensiamo solo alla sanità, e questo non necessariamente deve alludere a qualcosa di losco.
«Viene detto sottintendendo la prevaricazione, il manovrare chissà che cosa, mentre si tratta delle legittime prerogative di una carica democratica. E ci si dimentica che l’altra faccia della medaglia è la responsabilità. Il 21 febbraio 2020, con il Covid che cominciava a dilagare, io ho deciso di imporre la prima zona rossa d’Italia mentre il resto del Paese andava nella direzione opposta, e sempre io ho ordinato di chiudere cinema, teatri, chiese e di fare 350 mila tamponi anche se i tecnici me lo sconsigliavano. È stato un esercizio di potere? Sicuramente ma anche una bella responsabilità, che mi sono preso senza preoccuparmi del fatto che le elezioni si sarebbero dovute tenere qualche mese più tardi (poi saranno rinviate, ndr). Ricordo che venivo accusato di fare allarmismo e c’era chi vaticinava il crollo del mio consenso».

Un consenso che invece si è cementificato nei mesi successivi: 130 giorni consecutivi in diretta televisiva. C’è mai stato un momento in cui, spente le telecamere, ha pensato: non ce la faremo, mi precipita tutto addosso?
«No, perché mi sono rivolto al luminare più bravo di tutti che mi ha indicato subito la direzione: il professor Giorgio Palù. A febbraio 2020 lui mi spiegò la curva della pandemia, sapevamo che ad un certo punto avrebbe invertito la rotta. Si trattava di tener duro, di trovare i respiratori, di prendere le decisioni giuste durante il lockdown. Non mi sono mai fatto travolgere dal pessimismo e la diretta tivù serviva a trasmettere questa speranza».

Prima del Covid ci furono l’alluvione del 2010 e la tempesta Vaia del 2018.
«Non mi sono fatto mancare niente, l’alluvione ci colpì sei mesi dopo il mio arrivo qui in Regione… Ma sa che le dico? Io sono un uomo da pantano, è il terreno su cui mi muovo meglio e nelle varie emergenze che abbiamo affrontato in questi anni penso di averlo dimostrato. Le due catastrofi di Vicenza e Belluno mi hanno insegnato a prendere il toro per le corna, così è nato il “Piano Marshall” delle opere anti alluvione. Tutti dicevano: ma i soldi non ci sono, i cantieri non apriranno mai. Io mi sono fatto dare comunque i progetti, una pila alta così, ho tirato dritto. I cantieri non solo li abbiamo aperti ma pure chiusi e oggi il Veneto è più sicuro di allora. Poi il Piano è diventato il “Piano d’Alpaos”, vabbè…».

Ciò che ha fatto lo sta sottolineando ogni giorno in campagna elettorale. Ci dica un errore che ha commesso. In 15 anni sarà pur capitato.
«Errori se ne fanno tanti… Se potessi tornare indietro forse spingerei di più sul piano di vendita del patrimonio regionale. Non siamo buoni gestori di immobili, non è il nostro mestiere».

Sulla Pedemontana il suo successore può dormire sonni tranquilli?
«Vorrei che questa domanda lei l’avesse fatta al mio predecessore. Io ho dovuto risollevare un progetto ideato negli anni Novanta, tirato fuori dal cassetto nel 2002, con una gara fatta nel 2006. A che punto siamo oggi? La percorrono 85 mila veicoli al giorno, in crescita costante, il piano economico finanziario dice che tra nove anni andremo in attivo e fino ad allora la differenza tra quello che paghiamo al costruttore e quello che incassiamo dai pedaggi è di 45 milioni… 45 milioni l’anno per un’autostrada nuova! Secondo lei quando costruirono la A4, negli anni Sessanta, con le famiglie che l’automobile manco ce l’avevano, ci furono tutte queste polemiche? Bisogna saper guardare avanti e io le assicuro che tra non molto il problema della Pedemontana sarà come costruire la terza corsia».

La sanità secondo lei è migliore di 15 anni fa?
«Di gran lunga migliore. La nostra sanità, con 64 mila dipendenti, eroga 80 milioni di prestazioni all’anno, conta oltre 600 mila persone ricoverate, accoglie 2 milioni di pazienti nei Pronto soccorso…».

Sa davvero tutto a memoria?
«Che giudizio darebbe di un amministratore delegato che non conosce il numero dei suoi dipendenti, del suo fatturato, dei suoi stabilimenti? Io sono l’amministratore delegato di un’azienda che si chiama Regione».

Dicevamo delle liste d’attesa e della mancanza di medici.
«Quanto alle prime, siamo usciti dal Covid con 500 mila visite in attesa e oggi sono 6 mila, direi un numero fisiologico. Quanto ai secondi, quest’anno abbiamo messo a bando 746 posti in 212 concorsi e gli assunti sono stati soltanto 184. Se contiamo anche i medici di base, che ricordo sono liberi professionisti e non dipendenti delle Usl, mancano all’appello 3.500 professionisti. È colpa della Regione se non si trovano camici bianchi? Ma perché non parliamo dei 60 robot chirurgici che operano nei nostri ospedali, dell’intelligenza artificiale, della telemedicina, della breast unit per le donne colpite dal tumore al seno?».

Suo nonno Enrico emigrò in Brasile. Anche oggi molti ragazzi se ne vanno dal Veneto: cosa non sta funzionando?
«Ogni anno lasciano la nostra regione 3.500 persone tra 18 e 34 anni. Ma chi sono queste persone? Perché vanno via? Non ne sappiamo nulla e diamo per scontato che emigrino per una vita migliore altrove ma vicende come quella di Marco e Gloria, morti nel rogo della Grenfell Tower, ci dicono che non è sempre così. Quanti prendono l’aereo per raggiungere la fidanzata conosciuta durante l’Erasmus, perché non vanno d’accordo con la famiglia, perché vogliono fare un’esperienza all’estero prima di tornare e mettere radici qui, semplicemente perché il mondo è più piccolo grazie alle low cost? Occupiamoci degli expat, sono il primo a dirlo, ma facciamolo con serietà, dati alla mano e nella consapevolezza che non è un fatto veneto ma italiano e comune a molti altri Paesi europei».

Sul fine vita ha subìto la sua unica sconfitta politica in consiglio regionale, nonostante potesse contare sulla maggioranza più solida della storia.
«Non c’è stata alcuna “sconfitta politica” perché il fine vita non è una battaglia politica, è una battaglia etica, una battaglia di civiltà. Non ho cambiato idea: è un Paese ipocrita quello che finge di non vedere che il fine vita in Italia esiste già, legittimato da una sentenza della Corte costituzionale a cui la politica è chiamata a dare seguito con senso di responsabilità. In consiglio ho lasciato libertà di coscienza, non ho fatto una riunione, non ho fatto alcuna conta».

Dicono che lei non sappia fare squadra, che renda al massimo solo quando gioca in solitaria.
«Se fosse così sarei andato a casa subito, altro che 15 anni…».

Ma quante volte ascolta davvero chi non la pensa come lei?
«A casa mia si dice che solo i mona non cambiano mai idea».

Però è permaloso.
Si rivolge al suo portavoce, l’instancabile Walter Milan: «Scusa, sono permaloso io? Dì la verità».

Ma così non vale.
«Sfatiamo questo mito una volta per tutte. Io non sono permaloso, sono preciso: se tu mi contesti, devi avere gli argomenti per farlo. E invece qui c’è tanta gente che parla ma non studia e quindi dice cretinate. Io, se non so, per non incorrere nell’errore sto zitto. Sa a quanti eventi, congressi, panel mi invitano e a cui non partecipo perché non ho tempo di studiare il tema di cui si discute? C’è chi si offende ma io non vado in giro a chiacchierare a vanvera e se uno lo fa con me, sì, m’incazzo».

Sull’Autonomia secondo lei tanti parlano a vanvera?
«Se penso a quante sciocchezze ho sentito in questi anni…».

Martedì ha firmato una pre-intesa con il ministro Calderoli, ma il traguardo dell’Autonomia, a 8 anni dal referendum, resta lontanissimo, con contenuti a dir poco vaghi ed un iter intricato. Crede ancora nella riforma?
«Sì. Perché queste riforme o le facciamo per scelta o le faremo per necessità. È un treno che, per quanto proceda lentamente, un giorno dovrà per forza arrivare a destinazione. È vero, quel giorno non sarò più io il presidente del Veneto, ma nessuno potrà mai negare che è grazie al referendum voluto dal sottoscritto nel 2017 che in Italia si è parlato e si continua a parlare di Autonomia. Altro che soldi buttati, quei 2,3 milioni di veneti recatisi alle urne sono la spada di Damocle sulla testa di Roma».

Lei è sempre stato diffidente nei confronti della Capitale, che ora sembra essere la sua prossima destinazione.
«Vedremo, in politica il timing è tutto. Bisogna avere l’abilità di capire quando è il momento giusto, altrimenti ci si fa male. Ne ho visti tanti di ambiziosi commettere questo errore».

C’è chi le chiede di portare a livello nazionale il «modello Veneto». Eppure lei dà sempre l’impressione di non volersi allontanare da qui, forse anche per non rinunciare alla sua comfort zone?
«Ma guardi che io a Roma ci sono già stato da ministro e mi sono trovato benissimo. Vada a chiedere ad un agricoltore siciliano o ad un allevatore calabrese che ne pensano di me, che ricordi hanno della mia esperienza al ministero dell’Agricoltura. Quanto al fatto di tornarci, ripeto, non ne parlo perché non è il momento: step by step, day by day. Vedremo anche che idee avrà Alberto (Stefani, ndr), di cosa avrà bisogno. Io sono qui ma voglio che lui si senta libero e indipendente. Non ho mai voluto Grandi Fratelli alle mie spalle, anche se mi è costato scelte dolorose, non intendo certo diventarlo io per lui adesso».

Fare il sindaco di Venezia la intriga? Parliamo della città più bella del mondo e il municipio è giusto sull’altra sponda del Canal Grande.
«Ripeto: non solo la partita non è chiusa ma abbiamo appena iniziato il riscaldamento a bordo campo. Per me oggi tutte le soluzioni sono aperte».

Torniamo a Stefani. Dicono sia il suo erede. Ma Zaia ha eredi?
«Questa storia degli eredi a me sa sempre tanto di nepotismo. Sono convinto che ciascuno debba essere l’artefice del proprio destino, ognuno di noi ha la sua storia».

Nel 1998 lei fu il presidente di Provincia più giovane d’Italia. Stefani, se lunedì i sondaggi saranno confermati, diventerà il presidente di Regione più giovane della storia. Le secca cedere il primato?
«Assolutamente no. Anche perché la vera sfida non è conquistare il primato ma governare».

Si sente ancora leghista?
«Convintamente».

Si identifica in questa Lega?
«Sì perché ne rappresento con forza la parte identitaria. È il mio partito».

In conclusione, parafrasando Raf: cosa resterà di questi 15 anni?
«L’orgoglio, di cui parlavo all’inizio di questa conversazione. E poi la soddisfazione di lasciare l’unica Regione italiana senza l’addizionale Irpef, di aver avviato il percorso autonomista, di aver realizzato le opere contro le alluvioni e moltissime infrastrutture utili al territorio. Stefani ha già l’agenda piena di inaugurazioni… non è che io ne abbia trovate tante quando sono arrivato qui. Ma cedo il passo con grande serenità».

Rivendica di aver cambiato il Veneto. E lei, come è cambiato?
«Ho imparato ad ascoltare, a non prendermela troppo, a relativizzare sgarbi e delusioni, a non attendermi la riconoscenza altrui. E ad essere sempre ottimista, la grande lezione del Covid. Si sa come la penso, ci ho scritto perfino un libro: solo i pessimisti non fanno fortuna».

Scelga una foto, una soltanto, da portarsi a casa prima di andarsene.
«Prendo quella della vittoria a Losanna, scattata nell’attimo in cui Thomas Bach, presidente del Comitato Olimpico Internazionale, assegna le Olimpiadi a Cortina e Milano. Quella in cui salto, gridando con le braccia al cielo. Nessuno credeva che ce l’avremmo fatta, neppure i cortinesi, tutti pensavano fosse una boutade. E invece siamo riusciti in un’impresa storica: portare i Giochi per la seconda volta a Cortina. Un successo straordinario che nessuno potrà mai portarmi via, anche se non sarò io il presidente che saluterà gli atleti quando atterreranno da tutto il mondo qui, nel nostro Veneto».


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20 novembre 2025

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