
Da anni vive a Roma, lui milanese doc. E nella Capitale si è consacrato come uno dei migliori stand up comedian d’Italia, a breve di nuovo nei teatri col suo spettacolo «Flamingo». Ma il 37enne Luca Ravenna, studi al Parini, interista indefesso, non ha mai perso di vista la sua città natia. E vederla in difficoltà come di questi ultimi tempi, un po’ lo fa soffrire e molto ragionare. Di questo parlerà al Tempo delle Donne, venerdì 12 nel giardino della Triennale alle 20, di quello che sta succedendo nella città forse non più modello.
Già, cosa sta succedendo a Milano, Luca?
«È una città che ha fatto dell’autonarrazione il suo punto di forza. Però a furia di puntare sulle vetrine per esporre la merce, si è accorta di non avere più nulla da vendere».
Quali merci sono finite in questo negozio?
«Gli spazi della socialità, la cultura underground, quella da cui sono potuto partire io a Roma, mettermi alla prova, i palchi e i palchetti. È stato spazzato via quasi tutto».
Roma è migliore in questo?
«È più gattona, è bella di suo, non deve esporsi. E ciò si riflette in tutti gli ambiti, non avendo bisogno di mostrare appunto, c’è spazio per tutti: per teatri dove non si paga il biglietto, dove si può tentare in tranquillità»,
Per questo ci si è trasferito a 18 anni, nel 2003?
«In realtà ci sono andato solo perché volevo entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia. E per molti anni anzi mi sono chiesto se avessi fatto la scelta sbagliata».
Perché?
«Perché Milano sembrava il place to be: a partire dal 2011, con la rivoluzione arancione di Pisapia, i social che diventano realtà, un sacco di energie liberate, spazi come Macao, dove si sperimenta. Poi però le cose sono cambiate».
Come se ne è accorto?
«Ho sempre un punto d’osservazione dalla casa dei miei in centro: quando ho iniziato a vedere anziani che se ne andavano per lasciar posto a un airbnb dopo l’altro, solo per gente di passaggio, mi sono accorto che qualcosa non funzionava».
Da cos’altro?
«Quando vedi spuntare un palazzo di trenta piani che prima non c’era e ti toglie la luce. E se ne vedi uno, due, dieci, ti rendi conto che anche qui c’è qualcosa che non va».
Le inchieste sull’urbanistica l’hanno colpita?
«Da un punto di vista giudirico ci capisco poco, ma certamente il tema sociale c’è: se un professore di liceo è costretto a vivere fuori Milano anche qui i conti non tornano».
Hanno sgomberato il Leoncavallo.
«Per noi comici un faro, anche se magari aveva perso la sua vitalità: però lì ci sono stati Dario Fo e Franca Rame, Aldo Giovanni e Giacomo, ci hanno suonato grandi del rap come Beastie Boys e Public Enemy. È stato un attacco, in pieno agosto, a uno dei simboli della controcultura».
E hanno chiuso il Plastic
«Era un posto che ti faceva sentire come a Londra o New York: al di là dei motivi che hanno portato alla sua chiusura, se ci fanno un Carrefour o un bar da spritz a dodici euro, non aiuterà a migliorare la socialità della città».
E poi qualcuno vuole abbattere San Siro.
«Intanto stanno abbattendo il tifo: frequento la curva Nord, ci sono 8000 persone, non solo gli infiltrati della ndrangheta. E quelle terribili dinamiche si sapevano da tempo: è come un papà che si sveglia a un certo punto, dopo aver lasciato correre per anni. E punisce tutti, indiscriminatamente».
E l’abbattimento reale?
«Sono un tifoso romantico, quando hanno proposto di costruirlo ad Assago, mi sono venuti i brividi. Ma si capisce che è un’enorme speculazione edilizia. Vedo tutti quei nuovi palazzi intorno a San Siro, deserti: ma per chi li hanno fatti?»..
In questo quadro un po’ fosco, c’è qualche speranza, Luca?
«Stando al mio, c’è ancora una piccola rete di locali che resiste, dove fare stand up. Lasciateli in pace, lasciateci almeno ridere».
10 settembre 2025 ( modifica il 10 settembre 2025 | 12:56)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
10 settembre 2025 ( modifica il 10 settembre 2025 | 12:56)
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