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Little Steven: «Io, il Boss e San Siro. È lo stadio migliore al mondo, un’idea criminale pensare di abbatterlo»

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Pur convalescente, Little Steven non rinuncia alla bandana d’ordinanza, abbinata a una camicia viola sgargiante. Il piratesco chitarrista di Bruce Springsteen è stato operato di appendicite mentre erano in tour in Spagna «e per fortuna non mi sono sentito male sul palco o in aereo», commenta via Zoom, cauto sulle previsioni per le due date italiane, lunedì 30 e giovedì 3, quando con la E Street Band è atteso sul palco di San Siro. «Sarà una decisione dell’ultimo minuto», dice il musicista 74enne, cominciando invece a raccontare del documentario Hbo che porta il suo nome, «Stevie Van Zandt», in esclusiva su Sky Arte il 5 luglio, alle 21.15, disponibile anche on demand e in streaming su Now.

Guardando indietro, pensa di essere sempre stato destinato al rock’n’roll?
«Essendo cresciuto in quel periodo, direi di sì. Oggi forse non sarebbe così e questo è il motivo per cui ho passato gli ultimi 20 anni a cercare di ricreare qualche tipo di infrastruttura per i giovani che fanno rock. È difficile essere incoraggianti oggi, ma il lato artistico è rimasto lo stesso».

E dire che negli anni 70, per un periodo, lei ha lasciato la musica per lavorare nell’edilizia stradale.
«Sì, ad un certo punto sono scappato dallo show business e per due stagioni ho lavorato a costruire strade. Poi mi sono rotto un dito facendo sport e ho ripreso a suonare per esercitare le dita. Per un attimo ho pensato davvero di avere chiuso, mi pareva che tutte le cose migliori fossero già state fatte entro l’inizio degli anni 70. Non mi sbagliavo poi tanto, ma rimanevano alcune cose da fare e il destino aveva altro in serbo per me».

Non solo Springsteen: c’è la sua band, i Disciples of Soul, ci sono i ruoli da attore, nei «Soprano» in primis, e c’è l’attivismo: se ripensa al progetto «Sun City» contro l’apartheid in Sudafrica?
«È stato un momento eccezionale, in cui mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto, e ne è venuto fuori uno dei dischi politici di maggior successo della storia. Ne sono orgoglioso».

Oggi il rock ha ancora quel tipo di forza?
«No, non è più un’esperienza condivisa di massa, è troppo frammentato per poter cambiare la politica in maniera significativa. Si possono ottenere buoni risultati a livello locale, ma l’idea di una canzone che tutto il mondo canterà è finita e non credo tornerà».

Springsteen di recente è stato molto esplicito contro Trump, cosa ne pensa?
«Bruce dice ciò che bisogna dire in maniera eloquente: c’è insoddisfazione, ma tutti hanno paura di aprire bocca e quindi tocca a personaggi come lui o Bobby De Niro dire le cose come stanno. Ovviamente io sottoscrivo tutto ciò che dice Bruce, ma non penso al presidente: i cattivi restano tali, ma quando i buoni non riescono a essere un’alternativa, è colpa loro. La mia delusione è al 100% per il partito Democratico del mio Paese».

Negli anni 80, in Italia, ha incontrato Adriano Celentano, bandana in testa come lei, a «Fantastico».
«Adriano è un personaggio leggendario, quando si è vestito come me non potevo crederci. Mi spiace solo di non essere stato in Italia negli anni in cui era super popolare, ma ho avuto la fortuna di incontrarlo in quel programma».

Il legame che lei e Springsteen avete con San Siro è noto: è ancora così?
«Sì, e stanno provando ad abbatterlo, capite? Noi abbiamo suonato ovunque e possiamo dirlo: è il più grande stadio al mondo, ha personalità, cuore e anima. Sembra che i luoghi sacri del rock’n’roll non interessino a nessuno e ne abbiamo già persi tanti. E questo è uno di quelli che dovrebbero rimanere, è una cosa criminale. Il nostro promoter Claudio Trotta è in missione per salvarlo, spero che gli italiani si oppongano a questa operazione dettata dall’avarizia. Se ci sono di mezzo squadre di calcio, di soldi ce ne sono abbastanza».

Con Bruce avete mai considerato l’idea di fermarvi?
«Abbiamo deciso che ci fermeremo nel… 2074 mi pare, insomma fra una cinquantina d’anni, quando sarà il nostro centesimo anniversario insieme sul palco. Allora diremo che ne abbiamo avuto abbastanza e che sarà ora di lasciare posto agli altri».

Che cosa c’è di magico nel vostro legame?
«Quando sei giovane e ti senti una specie di freak che non fa parte della società, trovare un altro freak come te fa tutta la differenza del mondo. E questo è accaduto a noi: ci siamo trovati, eravamo le uniche due persone che non avevano un piano b al rock’n’roll. Negli anni 60, specie se venivi dal New Jersey, non era ancora considerato un lavoro, lo è diventato dopo. Le uniche star che conoscevamo venivano dall’Inghilterra e i genitori ci dicevano: “Cosa pensi di fare, diventare un Beatle?”. Quindi con Bruce ci siamo dati forza a vicenda e anche solo essere in due era enormemente importante».

30 giugno 2025

30 giugno 2025

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