Tra accuse, annunci propagandistici e ipotesi, risulta complesso fare chiarezza su quali siano stati i danni effettivi al programma nucleare iraniano a seguito dei raid della «Guerra dei 12 giorni» – nome voluto da Donald Trump. Dopo la notizia che l’Agenzia internazionale per l’energia Atomica non potrà più visitare gli impianti della Repubblica islamica, la ricerca della verità, necessaria anche per tornare ai tavoli negoziali, si fa ancora più difficile. Mentre funzionari iraniani intercettati dicono che «l’attacco è stato meno devastante di quanto si aspettassero», circola il presentimento che in questi anni gli ayatollah abbiano sviluppato piani per la creazione di siti segreti che farebbero da «backup di emergenza». È diventato un mistero che cosa sia successo effettivamente al sito di Isfahan, il complesso industriale a 400 chilometri da Teheran, fondamentale per il programma nucleare. Qui si trova principalmente uno stabilimento di conversione che trasforma il minerale di uranio grezzo in composti chimici che vengono poi trasportati agli impianti di arricchimento di Natanz e Fordow. Sullo stato di Isfahan abbiamo indizi disseminati nei briefing dei generali e dell’intelligence, nelle dichiarazioni dei politici e nei report della stampa internazionale: a volte si smentiscono a vicenda, a volte si rafforzano.
Niente bunker buster
La Cnn riporta che gli Stati Uniti non avrebbero usato bombe «bunker buster» nel raid sul complesso di Isfahan. Queste bombe, progettate per colpire strutture sotterranee, sarebbero state inefficaci perché il sito è troppo profondo anche per loro. A dirlo è il generale Dan Caine in un briefing riservato al Congresso. Secondo gli ufficiali americani, circa il 60% dell’uranio arricchito degli ayatollah si trova proprio nei tunnel sotterranei di Isfahan. Prima dell’attacco, una parte consistente di questo materiale — fino a 400 kg secondo alcune fonti — sarebbe stata trasferita lì. Le immagini satellitari analizzate dagli esperti, tra cui Jeffrey Lewis, del Middlebury Institute, mostrano che dopo il raid alcuni ingressi ai tunnel sono stati riaperti e c’è stata una discreta attività di veicoli nell’area. Lewis sottolinea che se l’uranio arricchito era ancora nei tunnel quando li hanno sigillati, ora potrebbe essere stato spostato altrove. Il vicepresidente Usa J.D Vance ha commentato: «Il nostro obiettivo era seppellire l’uranio e credo che l’uranio sia stato seppellito».

Gravi danni
Secondo il New York Times, gli attacchi su Isfahan hanno danneggiato gravemente i macchinari necessari per l’ultima fase del trattamento dell’uranio arricchito, quella che lo converte in metallo. Un colpo che dovrebbe rallentare di molto il programma nucleare della Repubblica islamica e che rafforza la voce di Trump quando dice che è stato «obliterated», raso al suolo. Come riporta il quotidiano di New York, il 13 giugno l’esercito israeliano ha dichiarato che nei raid hanno distrutto l’impianto per la produzione di «uranio metallico» e l’«infrastruttura» per la trasformazione dell’uranio arricchito in armi nucleari. Il 22 giugno, con gli Stati Uniti entrati in guerra, un sottomarino della Marina ha lanciato una trentina di missili da crociera Tomahawk verso Isfahan, informazione che non va in contraddizione con il report di Cnn. Il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Eyal Zamir, ha detto che sebbene l’Iran possa ancora mantenere parti del suo programma nucleare «questo è stato ritardato di anni».
I missili
Secondo fonti dell’esercito israeliano, prima dei raid, la Repubblica Islamica possedeva 2.500 missili balistici – in questi mesi ne avrebbero usati tra i 400 e i 700 – e stava costruendo una nuova struttura per la produzione di questi, che, entro il 2026, avrebbe portato gli ayatollah a raggiungere i 6.000 missili, e i 10.000 nel 2028. Le Forze di difesa israeliane hanno dichiarato di aver distrutto circa due terzi dei lanciatori balistici, lasciandone probabilmente meno di 200 ancora operativi.
29 giugno 2025
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