
Tra fede e superstizione, l’uomo continua a cercare la speranza nei gesti più semplici, con la certezza che basti essere convinti di qualcosa, per farla diventare verità assoluta, da difendere, diffondere, sublimare e trasformarla in missione di vita, per la quale sacrificare tutto, a partire da sé stessi. Una tenacia che unisce Nina e Ruben, i due ragazzini protagonisti di La ragazza di luce, romanzo d’esordio di Germano Antonucci, pubblicato da Terrarossa edizioni (pagine 200, euro 16). Una tenacia — anche — che tiene in piedi un paese distrutto da una calamità naturale, come un filo di sutura invisibile ma doloroso, che tira a ogni movimento.
Ci troviamo a Lume, paesino fittizio, descritto con una cura quasi cinematografica, diviso tra un prima e un dopo, tra le case morte — ovvero i resti inagibili — e il quartiere Primavera, una manciata di container disposti con rigore geometrico. Esiste, però, anche un durante: mentre la montagna si sgretola, una luce appare in prossimità della grande croce conficcata sul dorsale. Ogni personaggio fornisce una spiegazione diversa del fenomeno, e, paradossalmente, hanno tutte senso. E se di fronte a un avvenimento ci possono essere infinite spiegazioni, Nina e Ruben sono convinti che — per alcuni avvenimenti, come la scomparsa dei loro genitori — la spiegazione possibile sia solo una, e può essere anche molto lontana da quella che i loro cari, la logica, la probabilità, gli avvenimenti e il tempo vogliono raccontare.
Antonucci prende i suoi personaggi e li depura da qualsiasi condizionamento per lasciare loro solo una indefessa, inossidabile tenacia nelle loro convinzioni. I fatti narrati sono di supporto a tale missione e, per quanto la trama sia colma di mistero, gli eventi non divorano i personaggi, nonostante siano dotati solo di questa caratteristica. Il risultato non è un noir e nemmeno un romanzo di formazione, ma uno spaccato estremamente attuale della condizione umana, di un concetto di speranza esasperato a tal punto da accecare qualsiasi altro aspetto dell’essere umano. È una critica feroce, un grido muto per orecchie sorde, che passa attraverso una luce che tutti venerano, senza però avere il coraggio di guardarla sul serio, per paura di restarne accecati.
È in questo gioco di generi, in questo sacrificio narrativo che si può considerare l’esordio di Germano Antonucci come qualcosa di estremamente coraggioso e innovativo, a tratti necessario e audacemente specchio dei tempi moderni, dove risulta più facile credere che non siamo in grado di tollerare la verità a tal punto da crearne un’altra, dove però non c’è posto per niente di reale e sincero, dove non c’è posto per la fiducia e la solitudine diventa l’unica corazza possibile.
Nina e Ruben faranno fatica a liberarsi da questo incantesimo, a fidarsi l’un l’altro, a guardare il mondo con occhi nuovi, sotto quella luce che non a caso compare nel momento di massima disperazione. E quella croce, immobile e sfrontata, oltre a un simbolo di speranza e fede, con quei bracci rimasti intatti nonostante la catastrofe, tesi verso l’esterno, verso il paese, verso i loro abitanti, verso il loro dolore, i loro sogni, speranze, le loro contraddizioni e grandi fragilità, deve suggerire agli esseri umani l’unico gesto sincero che gli è rimasto da compiere.
31 ottobre 2025 (modifica il 31 ottobre 2025 | 16:21)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
31 ottobre 2025 (modifica il 31 ottobre 2025 | 16:21)
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